Sarà l’acqua. O forse l’aria, certo, perché di acqua ne girava davvero poca in certi ambienti, sarà sicuramente l’aria di quegli anni che avrà forgiato quelle resistenze, vere e proprie dissidenze nei confronti del corso naturale delle cose, quasi una guerra nei confronti della fisiologia e dell’antropologia, o semplicemente una guerra alla storia che non vuole diventare tale, restando un presente vivo e urlante.
Sono questo i Pere Ubu oggi, ed è questo David Thomas, leader, voce e unico superstite della formazione originaria, lui, un sopravissuto al pari di Iggy o Keith Richards, che alla ragguardevole età di sessant’anni, al caldo infernale che (finalmente) avvolge Bologna, è capace di ingollarsi un’intera bottiglia di vino rosso, fumare una sigaretta ogni due canzoni e resistere quasi un’ora e mezza sotto il gazebo del Bolognetti senza versare una goccia di sudore. Chapeau!
E’ con la storia della new wave quindi che si apre il “Rocker Festival” – organizzato anche quest’anno dal “Covo Club” e dall’”Estragon” nelle loro cornici estive – una storia seminale quella del gruppo di Cleveland, partiti alla fine degli anni ’70 e giunti fino ai nostri giorni ancora vivi e vegeti, depositari del verbo garage e new wave (insieme a Stooges e MC5) e padri spirituali di tutta la nidiata indie-garage-postpunk degli ultimi quindici anni.
Davanti a un Bolognetti strapieno (complice anche la lodevole iniziativa dell’entrata a offerta libera), con un pubblico che va dai venti ai cinquant’anni, la band di Cleveland in un’ora e mezza scarsa dà vita a un bignami del garage e post-punk, trasportandoci in un incubo industriale e post-atomico fatto di rumorismo straniante, nichilismo estremo, frammenti psichedelici e schegge sonore sgraziate, proprio come i lamenti gutturali e grotteschi di Thomas.
Dall’iniziale “Thanks”, passando per la ipnotica e magnetica “Mandy” e la visionaria “Musician are scum”, l’inizio è tutto frutto dell’ultimo lavoro “Lady from Shangai”, ma è altro quello che tutti gli storici fan aspettano come una liturgia, un passaggio necessario per aprire il varco temporale che tutti sperano di attraversare in un’afosa serata bolognese, ” è altro quello che sorprende e annichilisce, anche se gli ultimi lavori hanno una dignità e una coerenza creativa che merita infinito rispetto, e così l’altro puntualmente arriva nelle forme sferraglianti di “Over my head” e “The Modern dance, cariche di quella violenza primitiva e orgiastica, capace di fondere alla perfezione il suono urticante della chitarra, la cascata di rumori e suoni corrosivi che fuoriescono dalle diavolerie di Robert Wheeler e Gagarin e l’ossessivo tribalismo della batteria di Steve Mehlman.
“Love love love” e “Vacuum in my head” sono schegge di un passato che ritorna fiero e imprescindibile, ancora carico di potenza e vigore da vendere, “Breath” invece rallenta i furori industriali, placa di colpo ogni collisione sonora e riesce quasi a creare un cuscinetto di melodia e calma apparente. Il finale è tale sin dal titolo, perché mentre il gruppo lascia per una attimo il palco, David Thomas resta ancorato al suo sgabello, dando fondo al rosso d’annata di cui sopra, gli occhi perennemente socchiusi, il palco che si rianima intorno a lui, l’ennesima sigaretta che prende fuoco tra le sue labbra e le note sintetiche di “Final Solution” che invadono il porticato del Bolognetti, mentre riecheggia nella sua estrema tragicità quel verso, quel “i don’t need a cure/i need a final solution” che Thomas mugugna tra l’ imperfetto e il sermonico, mentre il resto del pubblico urla come un mantra, voce e dolore di una generazione che per una sera è tornata a danzare tra le torsioni di un tempo disperato, tragico, altro.
autore: Alfonso Posillipo
foto: Bianca Greco