La struttura che stasera ospiterà alcune tra le voci più rilevanti di una scena americana tra le più interessanti e musicalmente fuori dal coro degli ultimi anni, è una vecchia filanda all’interno di una corte perduta tra i campi della Marca Trevigiana e che già da sola è degna di scritti. Un meraviglioso esempio di archeologia industriale, riadattata ad associazione culturale, cioè luogo in cui la cultura si produce, si ospita e si respira e non nel senso di live bar con tessera. Quello che ci è stato riferito alla porta infatti, laddove c’è la consueta richiesta anagrafica, è stato un dispiaciuto rimprovero per aver perso zuppa calda e vino. Ma fortunatamente nessuno dei nostri musicisti statunitensi. E per il primo, Mudboy, ragazzo del Rhode Island, dire musicista è limitativo. Egli pratica circuit bending estremo, utilizza le vocals in litanie demoniche, fa esplodere petardi, picchia campanacci con un tizzone ardente, gira tra il pubblico con uno straccio in testa e spara flash sui volti della gente come a voler risvegliare qualcosa che è dentro, in profondità, mentre drones e fields recordings contribuiscono a rendere sempre più inquietante e sinistra la sua performance e quindi l’ambiente circostante. Ma è fondamentalmente un incedere epico, wagneriano a dominare le composizioni nate da due note-giocattolo poi doppiate, sdoppiate, ritmate, potenziate, dilatate, distorte ed esplose. Difficile citare dei nomi per aiutarsi a tracciare una mappa di riferimento, poiché troppe le influenze e le suggestioni che subentrano; forse quello vuole essere il risultato di Mudboy, una performance concettuale, qualcosa tra Popol Vuh e Current 93. I Black Forest Black Sea, a dispetto del nome, sono già più rassicuranti. Se non altro adesso un faretto illumina il palco al posto dei due lumini di prima e le figure quasi mormoniche dei due lasciano presagire qualcosa di più pacificante. Ed in effetti dalle corde della chitarra e del violoncello si sprigionano speziati aromi di antico folk che si diffondono da un medioevo più interiore che estetico, ancestrale, ai bagliori acustici di un folk cantautorale e sinceramente underground, inglese ed americano del decennio ’60 – ’70. Eppure questo non basta a restituire tutta l’essenza di Black Forest Black Sea se non si riconosce l’animo free e retroavanguardista che l’elettronica povera di cui si avvalgono, conferisce. Per questo i delays e i crepitii vari sono parte integrante di questi affreschi sonori e si attorcigliano atttorno alle corde di Jeffrey, ne scalano a ritroso gli arpeggi come serpentelli invisibili e tirano l’archetto di Miriam come gioiose creature silvestri che cercano di espandere all’infinito, con il loro effetto straniante ma armonioso, un loro canto, un’ ode alla natura. Stesso discorso ma ancor più esasperato per Tara Burke, cioè Fursaxa. Lei da sola sul palco, grazie al sequencer officia dei veri e propri riti sciamanici. La solennità e l’austerità è quella della Nico più ieratica, ma la differenza è che mentre la musa dei Velvet Underground innalzava il suo canto nichilista da una disperazione urbana, in Fursaxa la connotazione negativa è completamente annullata dalla purezza di chi è fuori dal mondo e dalle sue cose e che si confronta e si rispecchia solo negli alberi il cui legno è il medesimo degli strumenti primitivi di cui si avvale, negli uccelli il cui cinguettio è richiamato dalle sue scatoline elettriche e nei laghi cristallini come la sua voce che si innalza e flebile va a morire nel rosso fuoco di un tramonto su una montagna. La nuova scena free folk americana sembra non scendere a compromessi.
Autore: A.Giulio Magliulo
www.blackforestblacksea.com – mudboymusic.com – www.fursaxa.net