Ancora una volta, per l’ennesima edizione il “Ferrara sotto le Stelle” ci regala un vero e proprio sogno di mezza estate, un’autentica visione che si materializza tra le mura del castello estense, da più di un decennio oramai, sfondo e cornice di uno dei migliori festival italiani.
L’appuntamento di questa sera è di prim’ordine, l’accoppiata Beirut + The National è una proposta degna dei più quotati festival europei e senza dubbio rappresenta un ulteriore medaglia al merito per gli organizzatori.
E’ ancora giorno quando sul palco si intravedono i fiati e gli ottoni dei Beirut, ma l’attenzione per la loro performance, considerando il trasporto e l’entusiasmo al quale si lascia andare gran parte della piazza, è quanto di più lontano ci sia da quella che generalmente viene riservata ai gruppi spalla.
La performance del gruppo di Zachary Francis Condon, alla prima apparizione sul suolo italico, è sicuramente di ottimo livello, tranne per quanto riguarda la varietà del sound proposto, che alla lunga risulta leggermente ripetitivo e monocorde.
Pezzi come “Elephant Gun’ e ‘Postcards From Italy”, con il loro folklore balcanico sono un toccasana per lo spirito, ma soprattutto per il corpo, tant’è impossibile restare fermi senza almeno ancheggiare un po’.
Ma tutta la spensieratezza e la leggiadria del sound dei Beirut si volatilizza in un sol colpo, il tempo di lasciar entrare nell’aria i primi arpeggi di “Runaway” e l’inquietudine della voce di Berninger s’impadronisce completamente della piazza . Nemmeno il tempo di apprezzare l’eleganza di Matt nel suo completo che più dark non si può, nonché di renderci conto che davvero siamo in presenza di un sold-out, che una dietro l’altra arrivano “Secret Meeting”, “Bloodbuzz Ohio” e “Slow Show”, eseguite in maniera perfetta, con la coppia di fratelli Devendorf & Dessner per nulla in secondo piano, quasi a voler sottolineare il loro fondamentale contributo spesso oscurato dalla personalità debordante del frontman.
La setlist pesca a piene mani dall’ultimo, formidabile “High Violet”, l’album della definitiva consacrazione, e senza un attimo di respiro arrivano “Afraid of Everyone” “Conversation 16” e “Little Faith”, che ripulite dagli arrangiamenti orchestrali e dalle tastiere, risuonano tese e distorte, come se fossero affette da un’urgenza emotiva che su disco non sempre si percepisce.
“Abel” e “ All the Wine” sono un tuffo doppio carpiato in “Alligator”, un rimando chiaro e inequivocabile ad atmosfere tipiche del miglior Nick Cave e a quel folk-wave crepuscolare di cui oramai i nostri “eroi” sono imprescindibili alfieri.
Il momento intimista, utile a farci riprendere fiato, ma soprattutto coscienza di quello a cui stiamo assistendo, arriva con la languida “Sorrow” e la quasi sussurrata e acustica “Green Gloves”, preludio necessario che ci accompagna dolcemente verso il finale del set con l’epica “Fake Empire”, resa ancora più imponente e corposa dalla presenza dei fiati di Zach Condon e Kelly Pratt dei Beirut.
Il bis, l’encore che tutti si aspettano – perché mancano ancora all’appello due/tre pezzi imprescindibili nella discografia del gruppo di Cincinnati – è qualcosa di cui si dovrebbe parlare a parte, perché ciò che prende vita nei circa venti minuti restanti è una sorta di sintesi perfetta di come dovrebbe essere un live, un bignami ad uso e consumo di chi pensa di aver già visto tutto e non può sorprendersi davanti a nulla.
Si comincia con “Driver, Surprise me” vecchia b-side che rende la serata ancora più esclusiva, poi è la volta di una tiratissima “Mr November”, dove assistiamo alla prima escursione di Mr.Beringer dal palco verso la piazza, ma è durante “Terrible Love” che il biondo cantante americano (nella foto) scavalcando le transenne, pensa bene di venircelo a cantare letteralmente in faccia questo suo terribile amore, abbandonandosi completamente tra la folla che lo sorregge, lasciandosi stringere, strattonare, abbracciare da una piazza intera, in un crescendo di empatia che ha dello stupefacente.
Potrebbe finire tutto qui e saremmo stra-soddisfatti di una chiusura fatta di mani, corpi, sudore, energia e magia pura, ma il colpo di coda capace di scavarti dentro, attraversando le ossa per arrivare fino all’anima è tutto nella versione a cappella di “Vanderlyle Crybaby Geeks”, con tutto il gruppo che guadagna il centro del palco e con 5000 persone che cantano all’unisono, coprendo con voci e cuori quel flebile arpeggio che accompagna questo ultimo, struggente sogno. Il resto sono solo brividi che per quanto mi riguarda, potrebbero durare tutta la notte, per un mese o per sempre.
Autore: Alfonso Posillipo _ foto di Luca Panella
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