L’hobby preferito di alcuni critici sembra fare a pezzi i film. A prescindere
Lascia davvero senza parole il talento formidabile di Mariarosa Mancuso nell’individurare gli elementi più inessenziali di ogni film. La giornalista de “Il Foglio” scrive settimanalmente una rubrica dal titolo di “Cinema Cinema Cinema”, in cui condanna alla mediocrità una percenutale altissima dei film che, a quanto pare, è costretta a vedere: quasi fosse una sorte avversa e non un vincolo contrattuale. Non le si chiede certo di elargire lodi a chi le merita poiché il compito della critica è gozzovigliare alle feste e redigere strani testi figli dell’acrimonia e di un incomprensibile senso di superiorità (culturale o antropologica, a volte entrambe).
Non che non sappia “vedere” i film, la Mancuso, ma quando deve distruggere un film lo fa con l’intento di ridicolizzare attraverso notazioni di carattere strettamente extra-cinematografiche. Parlo in particolare della recensione apparsa lo scorso 23 maggio in cui fa a pezzi “Vincere” di Bellocchio sottolineando il poco interesse della vicenda trattata nel film. La cosa più bella: la Mancuso nota che nel grande film di Bellocchio è solo donna Rachele a parlare in uno stretto dialetto incomprensibile mentre gli altri sfoggiano “l’accento delle scuole di recitazione”. Avere attenzione per questi aspetti dimostra, secondo noi, una straordinaria capacità di evidenziare l’inessenziale, poiché era difficile cogliere quel dato attoriale come una falla drammaturgica e non come un buon espediente per denotare la pochezza della donna scelta dal duce a scapito di Ida Dalser, cittadina del mondo, ostinata, passionale, il cui italiano fluente pare una scelta assai plausibile filologicamente. Se solo la filologia avesse a che fare con il cinema…Che poi Bellocchio dia per scontato l’assoluto interesse della storia della Dalser non lo fa solo perchè un documentario che la raccontava lo ha salvato dalla noia mortale di una “serata televisiva” (come dice la fogliante). E non lo fa perchè è avvincente seguire la scandalosa bigamia del Duce ( uomo il cui numero di copule si attesta su cifre altissime, storicamente accertate). La vicenda non vuole infatti stimolare negli spettatori un interesse da studiosi, ambizione estranea ad ogni buon film, piuttosto punta a ispirare una genuina empatia verso l’ossessione di una donna irriducibile (in questo ha punti di intersezione con Changeling di Eastwood).
La regia di Bellocchio gioca con la violenza delle immagini, sempre destinate ad avere il centro di sé nei propri margini, come nella grande sequenza del Mussolini socialista impegnato in una violenta manifestazione di piazza. Lo sguardo di Giovanna Mezzogiorno/Ida Dalser che, come la personificazione di un carrello laterale, scruta gli eventi della Storia fluire in strada. Con l’aiuto della fotografia di Daniele Ciprì il corso degli Eventi viene davvero mostrato come oscuro, sotterraneo, le lotte finalmente sono lucubri e sanguinose; il rosso porpora sulla mano della Dalser, un primo piano unicamente “ematico” illuminato solo da pochi bagliori.
Infine il figlio Benito, interpretato dallo stesso Timi (laddove il concetto di recitazione ricopre una certa importanza nel film) è la chiosa finale, un rifiuto della Storia che nelle sue notti insonni, da adolescente e da recluso, chiede con tenerezza il proprio nome. Senza contare la scena in cui un edificio bombardato si sgretola inondando la strada di polvere, e la folla impazzita scappa a differenza di un profilo femminile che, quasi incurante, sospinge il suo genito all’interno del carrozzino
Autore: Roberto Urbani