Esistono “eventi” iconici, la cui fama è spesso anche superiore al loro intrinseco valore artistico, figli di “congiunzioni astrali” su coordinate spazio temporali uniche; diventano “eventi” di culto, totemici, che generano anche a distanza di decenni, soprattutto nei nostalgici, moti da rito pagano.
Uno di questi “eventi” è indiscutibilmente il “Live At Pompeii” dei Pink Floyd, originariamente nato come documentario/film diretto da Adrian Maben, girato nell’ottobre del 1971 e pubblicato nel 1972.
Dopo il restauro e il nuovo mix (dell’ormai onnipresente Steven Wilson) e la nuova proiezione nelle sale, il concerto è stato stampato nella sua rinnovata veste anche ufficialmente in CD e Vinile con il titolo “Pink Floyd at Pompeii – MCMLXXII” (Sony/Columbia), restituendolo finalmente anche su “supporto audio”, colmando così un vuoto fino ad oggi riempito da pubblicazioni non ufficiali (nelle note di copertina del vinile si legge “Recorded in the Roman Amphitheatre at Pompeii, 4-7 October 1971, for ‘Pink Floyd At Pompeii’ directed by Adrian Maben”).
Premessa
Già in passato su queste pagine ho avuto modo di parlare dei Pink Floyd e con essi dei lavori solisti di Roger Waters e di David Gilmour; prima di affrontare nel dettaglio l’analisi di “Pink Floyd at Pompeii – MCMLXXII” è opportuno ribadire alcuni concetti già espressi.
Nel 2023 si sono celebrati i 50 anni di “The Dark Side Of The Moon” e l’argomento fu trattato nello “speciale” “50 anni di The Dark Side of the Moon e il Live at Wembley 1974”; ebbene, contenendo il documentario anche “rari scorci del dietro le quinte della band che lavora a The Dark Side of the Moon negli Abbey Road Studios” (come si legge sul sito della Sony consultato il 19.4.25: https://store.sonymusic.it/products/pink-floyd-at-pompeii-mcmlxxii?srsltid=AfmBOoodwFDUGUYV71aMiOucTPTKHAnkj0oMZd1q3X-N1fuIS6_-Agql), quanto osservato nel citato speciale torna utile all’odierna trattazione; ciò sebbene tra le registrazioni di Pompei e “The Dark Side Of The Moon” siano poi intercorse le pubblicazioni di lavori quali il bel “Meddle” (del 1971) e il (più che) trascurabile “Obscured by Clouds” (del 1972).
In quell’occasione scrissi: ‘devo fare una doverosa premessa per rendere la mia narrazione intellettualmente onesta e scevra da partigianerie: non ho mai condiviso “l’iperdulia mariana” che accompagna i Pink Floyd, sia tra i loro “devoti” fan che tra alcuni “addetti ai lavori”; i 50 anni di The Dark Side of the Moon, e la pubblicazione del Live at Wembley 1974, sono però spunto interessante per alcune riflessioni che vadano oltre un’abusata analisi del disco, della sua storia, delle sue stampe, edizioni … Avrò avuto non più di 14 anni, lo ricordo perché ero al primo anno delle superiori, quando acquistai The Dark Side of the Moon e, da adolescente, rimasi straniato e affascinato da quelle musiche eleganti e morbide e dai quei testi “profondi” e di una impeccabile poetica, capaci entrambi di svilupparsi con un’evoluzione narrativa da letteratura scritta, produttrice di immagini e di visioni; ancora oggi, quando ascolto i primi minuti del LP, sento e vedo, nei ricordi, quel periodo passato. The Dark Side of the Moon l’ho, poi, “vissuto” dal vivo, interamente, nel 1994, a Roma, nel corso del tour post The Division Bell. Nonostante, come abbia già detto, non condivida la “venerazione mistica” che molti nutrono per i Pink Floyd (rei di aver pubblicato – a parere dello scrivente – anche dischi estremamente sopravvalutati; sarò impopolare ma ho sempre mal digerito il “maldestro” tentativo di spingersi su territori a loro non propriamente congeniali, come nella parte in studio di Ummagumma, nella “suite” Atom Heart Mother – in collaborazione con Ron Geesin – o nella “concreta” Alan’s Psychedelic Breakfast, esperimenti, questi, funzionali solo a gettare le basi per ciò che di buono verrà negli anni successivi), devo necessariamente riconoscere la “perfezione” e l’“equilibrio” unico che scolpisce i solchi di The Dark Side of the Moon, rendendolo – a mio giudizio – il più riuscito prodotto discografico della storia della musica. Una storia della musica che purtroppo, come la storia medesima spesso insegna nelle sue revisioni postume, non restituisce sempre un’immagine del vero, scomponendo, attraverso il suo prisma, gli eventi in soggettive percezioni, poi massificate, degli stessi. Correva, infatti, il 1 marzo del 1973 quando negli USA (ancor prima che in Inghilterra) veniva pubblicato The Dark Side of the Moon; nello stesso anno, tanto nella “cara vecchia Europa” quanto nel “nuovo mondo”, vedevano la luce capolavori quali Cyborg di Klaus Schulze (che l’anno prima aveva dato alle stampe l’inarrivabile Irrlicht) e Fare Forward Voyagers (Soldier’s Choice) di John Fahey (per citare i più rappresentativi). Senza scomodare la musica tedesca di quegli anni che, a dispetto dei Pink Floyd e del tanto celebrato rock progressivo, rappresenta la “summa” di tutta la musica dei primi anni settanta (solo l’anno prima della pubblicazione di The Dark Side of the Moon, nel 1972, oltre al già citato Irrlicht, le puntine suonavano: Hosianna Mantra dei Popol Vuh, Neu! dei Neu!, Zeit dei Tangerine Dream …), lo stesso mondo musicale più affine ai Pink Floyd, nel 1973, dava alle stampe dischi di inestimabile valore artistico, partendo da Flying Teapot dei Gong, passando per Leg End degli Henry Cow, per arrivare alla pietra d’angolo Lark’s Tongues in Aspic dei King Crimson e, solo l’anno dopo (nel 1974), Robert Wyatt (con la produzione proprio di Nick Mason) pubblicava quello che, a parere di chi scrive, è il più bel disco “rock” di sempre: Rock Bottom (compiuto e non perfettibile)’.
“Pink Floyd at Pompeii – MCMLXXII”
Quanto sopra riportato, malgrado possa sembrare anche ridondante, inquadra ad uno/due anni di distanza il momento storico in cui a Pompei, nell’antico anfiteatro, i Pink Floyd, con una magistrale operazione artistico-commerciale, decisero di esibirsi per le sole telecamere.
Se come detto “The Dark Side Of The Moon” incarna l’indiscussa “perfezione” raggiunta dai Pink Floyd, il concerto di Pompei fotografa un altro loro momento di particolare ispirazione, quello che fu ponte tra l’abbandono di Syd Barrett e l’ascesa di Roger Waters.
Altro motivo di pregio del concerto di Pompei è quello di essere, in forma e sostanza, un “the best” delle loro migliori composizioni comprese tra il 1968 di “A Saucerful of Secrets” e il 1971 di “Meddle”, per quelli che restano i due dischi veramente degni di nota degli anni compresi tra i vertici “The Piper at the Gates of Dawn” del 1967 e “The Dark Side Of The Moon” del 1973; ciò al pari del live di “Ummagumma” (con registrazioni del 1969), con una scaletta molto simile che vede però una graditissima “Astronomy Domine” al posto di “Echoes”.
Va poi dato pieno merito anche alla scelta dei brani, perfetti nel creare un’ambientazione evocativa in esatta sintonia con i luoghi e il loro “arcaico” fascino.
A questo punto è però necessaria un’altra precisazione; il live a Pompei fu suonato nel 1971 e di quello stesso anno (per restare in tema di modalità di esecuzione dal vivo e di “affinità” di genere) furono altri i dischi di mirabile fattura, partendo da quello che per lo scrivente è uno dei più bei concerti di tutti i tempi “At Fillmore East” dei The Allman Brothers Band, finendo alla scena tedesca con l’eccelso omonimo dei Faust, “In den Gärten Pharaos” dei Popol Vuh, “Tago Mago” dei Can, “Kraftwerk 2” dei Kraftwerk, “Alfa Centauri” dei Tangerine Dream…
Contemporaneamente la scena progressive (e affini) britannica congedava con i Caravan “In the Land of Grey and Pink”, con i Soft Machine “Fourth”, con gli Yes “Fragile”, con i Genesis “Nursery Crime”, con i Van Der Graaf Generator “Pawn Hearts”, con i King Crimson “Islands”, con i Jethro Tull “Aqualung” con gli Emerson Lake & Palmer “Tarkus”, con i Gentle Giant “Acquiring the Taste”, con i Family “Fearless”, con gli Audience “The House on the Hill”, con gli Hawkwind “In Search of Space” … se poi si volesse prendere come data quella di pubblicazione, il 1972, basterebbe il solo “Irrlicht” di Klaus Schulze a chiudere definitivamente i giochi.
Ritorna quindi quanto detto in apertura di articolo, ovvero che esistono “eventi” iconici, la cui fama è spesso anche superiore al loro intrinseco valore musicale, figli di “congiunzioni astrali” su coordinate spazio temporali uniche. E così è per “Pink Floyd at Pompeii – MCMLXXII”, che resta comunque un ottimo disco e un ottimo concerto.
Passando alla descrizione del doppio LP, messo il primo vinile sul piatto un battito cardiaco dà vita a “Pompeii Intro” che testimonia i tentativi dei Pink Floyd di esplorare territori affini ad una sperimentazione elettronica che troveranno poi maggiore compiutezza proprio in “The Dark Side Of The Moon”.
È quindi la volta della splendida e monumentale “Echoes – Part 1” carica di riverberi psichedelici e di abrasioni, ponte tra ciò che i Pink Floyd erano stati sino ad allora e ciò che saranno di lì a venire.
Con “Careful With That Axe, Eugene” e “A Saucerful Of Secrets” la musica diviene esatta “colonna sonora” dello spazio e del tempo che gli scavi archeologici di Pompei rappresentano (il vinile contiene, sul Side D, anche altre due versioni dei citati brani indicate come “alternate take” per “Careful With That Axe, Eugene” e “unedited” per “A Saucerful Of Secrets”); “Careful With That Axe, Eugene” data la sua naturale propensione a una forma più libera, si presta anche a una maggiore improvvisazione.
“Set The Controls For The Heart Of The Sun” è altra esecuzione fortemente evocativa e, come già era stato per la versione su “Ummagumma”, viene qui dilatata e il suo minutaggio raddoppiato rispetto alla versione in studio, muovendosi tra motivi orientaleggianti e sonorità prossime allo space rock.
Cambiato il vinile, “One Of These Days” è giusta occasione per uno spunto di riflessione e per un ricordo personale; quando uscì il live dei Pink Floyd “Delicate Sound of Thunder” (del 1988), il gruppo era oramai già orfano di Roger Waters e sul disco era presente una versione di “One Of These Days” affidata al bassista Guy Adam Pratt; ebbene non potè sfuggire all’orecchio la sostanziale differenza di esecuzione tanto che ricordo che il brano fu oggetto di discussione con musicisti (bassisti) appassionati dei Pink Floyd.
L’esperimento per chitarra, armonica e cane di “Mademoiselle Nobs” (rivisitazione di “Seamus”), sebbene rappresenti un bel momento, è però totalmente fuori contesto, prima che “Echoes – Part 2” ristabilisca il giusto ordine delle cose.
Al netto di ogni considerazione personale, il live “At Pompeii” resta un pezzo di storia della musica che sfida tanto il suo quanto il nostro tempo.
https://www.pinkfloyd.com/