Meglio mettere le mani avanti, ed essere sinceri da subito con i lettori: chi scrive è un grande fan dei R.e.m., troppo emotivamente coinvolto, forse, per poter esprimere giudizi obiettivi. Per onestà intellettuale sarà meglio “sdoppiare” questa recensione in due parti: una prima più “spontanea”, ed una seconda in cui cercherò di essere quanto più distaccato e imparziale possibile. Non vi resterà che “sottrarre” i giudizi espressi nella prima parte della recensione alla cronaca riportata nella seconda parte, ed avrete qualcosa che – mi auguro – si avvicini il più possibile ad una recensione “neutrale”.
Prima recensione. Quasi sold-out all’Olimpico per il ritorno a Roma – dopo 10 anni esatti – dei R.e.m. Era l’epoca di “Monster” quando la capitale li ospitò per l’ultima volta, e – quasi a volerlo ricordare – è proprio da quell’album che vengono estratti i primi due pezzi in scaletta. L’inzio – con “I took your name” e “What’s the frequency, kenneth?” – è bruciante. Stipe è elegantissimo: giacca, cravatta e maschera di trucco verde attorno agli occhi. Buck e Mills sembrano da subito in gran forma, affiatatissimi. La prima sorpresa è una meravigliosa “These Days” (primo tuffo nel passato), che Stipe spiega essere una richiesta (anche se non è dato sapere di chi). Si ritorna coi piedi per terra, purtroppo, con “Outsiders”, dall’ultimo, mediocre disco in studio (“Around the sun”), che non convince neanche dal vivo. Per fortuna arriva “Driver 8” a mandare in delirio i fan della prima ora: esecuzione memorabile (a 20 anni esatti dalla sua incisione i tre di Athens la suonano ancora con passione e coinvolgimento!) ed emozioni indescrivibili. A metà concerto il pubblico è letteralmente rapìto dalle chitarre ipnotiche ed ossessive di “Leave”, prima di impugnare accendini e (ahimé!) cellulari per accompagnare la band in “Everybody hurts”, ancora una volta dimostratasi una perfetta ballad da stadio. Stipe si conferma un animale da palcoscenico senza pari, e la band sembra intenzionata più che mai a smentire i dubbi sul suo stato di forma, derivati dalla fiacchezza delle ultime prove in studio. L’energia è dirompente (“Bad day” e “Animal” sono percorse da brividi elettrici ad alto tasso d’adrenalina), e la scaletta pesca a piene mani da quasi tutto lo straordinario repertorio a disposizione (chi si sarebbe mai aspettato “Me in honey”?), soffermandosi su album-culto come “Green” (da cui scelgono le energiche “Orange crush” e “Get up”), e regalando momenti da pelle d’oca, con una versione per sola voce e piano (suonato da Mills) di “Nightswimming”, e una brillante “Electrolite”, in cui gli strumenti (piano, banjo, chitarre…) viaggiano in armonia perfetta con le splendide melodie accarezzate dalla voce di Stipe. Tra i pezzi più recenti si fanno apprezzare “Imitations of life” e “Final straw”, semplice e diretta ballad folk-rock di “protesta”. Nel finale gli occhi sono tutti per Michael Stipe e i suoi balletti sulle note di “Man on the moon”.
All’Olimpico s’è vista una band in stato di grazia, solida, convincente più che mai e spalleggiata da comprimari di altissimo livello (Scott McCaughey alla chitarra, Ken Stringfellow alle tastiere, e l’ex Ministry Bill Rieflin alla batteria). C’è poco da aggiungere: i R.e.m. restano ancora la più grande rock band del pianeta, senza ombra di dubbio.
Seconda Recensione: Quasi sold-out all’Olimpico per il ritorno a Roma – dopo 10 anni esatti – dei R.e.m. Era l’epoca di “Monster” quando la capitale li ospitò per l’ultima volta, e – quasi a volerlo ricordare – è proprio da quell’album che vengono estratti i primi due pezzi in scaletta. L’inzio – con “I took your name” e “What’s the frequency, kenneth?” – è bruciante. Stipe è elegantissimo: giacca, cravatta e maschera di trucco verde attorno agli occhi. Buck e Mills sembrano da subito in gran forma, affiatatissimi. La prima sorpresa è una meravigliosa “These Days” (primo tuffo nel passato), che Stipe spiega essere una richiesta (anche se non è dato sapere di chi). Si ritorna coi piedi per terra, purtroppo, con “Outsiders”, dall’ultimo, pessimo disco in studio (“Around the sun”), che non convince neanche dal vivo. Per fortuna arriva “Driver 8” a mandare in delirio i fan della prima ora: esecuzione memorabile (a 20 anni esatti dalla sua incisione i tre di Athens la suonano ancora con passione e coinvolgimento!) ed emozioni indescrivibili. A metà concerto il pubblico è letteralmente rapìto dalle chitarre ipnotiche ed ossessive di “Leave”, prima di impugnare accendini e (ahimé!) cellulari per accompagnare la band in “Everybody hurts”, ancora una volta dimostratasi una ballad da stadio, forse giusto un tantino troppo patetica. Stipe si conferma un animale da palcoscenico senza pari, e la band sembra intenzionata più che mai a smentire i dubbi sul suo stato di forma, derivati dalla fiacchezza delle ultime prove in studio. L’energia è dirompente (“Bad day” e “Animal” sono percorse da brividi elettrici ad alto tasso d’adrenalina), e la scaletta pesca a piene mani da quasi tutto lo straordinario repertorio a disposizione (chi si sarebbe mai aspettato “Me in honey”?), soffermandosi su album-culto come “Green” (da cui scelgono le energiche “Orange crush” e “Get up”), e regalando momenti da pelle d’oca, con una versione per sola voce e piano (suonato da Mills) di “Nightswimming”, e una brillante “Electrolite”, in cui gli strumenti (piano, banjo, chitarre…) viaggiano in armonia perfetta con le splendide melodie accarezzate dalla voce di Stipe. Tra i pezzi più recenti si fanno apprezzare “Imitations of life” e “Final straw”, semplice e diretta ballad folk-rock di “protesta”. Nel finale gli occhi sono tutti per Michael Stipe e i suoi balletti sulle note di “Man on the moon”.
All’Olimpico s’è vista una band in stato di grazia, solida, convincente più che mai e spalleggiata da comprimari di altissimo livello (Scott McCaughey alla chitarra, Ken Stringfellow alle tastiere, e l’ex Ministry Bill Rieflin alla batteria). C’è poco da aggiungere: i R.e.m. restano ancora, probabilmente, la più grande rock band del pianeta.
Autore: Daniele Lama