Un simpatico signore di mezza età, giacca e cravatta nera e chitarra acustica, salito sul palco saluta i presenti omaggiando il buon vino italiano ed ammettendo una lunga notte precedente di ‘degustazioni’. Poi inforca gli occhiali che gli conferiscono un’aria da ragioniere o bancario o qualsiasi cosa tranne che da rocker e comincia a sorridere sornione, giustificandosi, con grande autoironia che anche questo fa parte della sua evoluzione artistica. Il pubblico sghignazza divertito fin quando un primo accordo western ci avvisa che quello è Stanard Ridgway detto Stan e ci rivela già tutta l’essenza della musica e del concerto di stasera. E poi, finalmente, quella sua voce incredibile dalla tonalità nasale, fredda, un pò maledetta, che ovviamente abbiamo conosciuto attraverso i suoi Wall of Voodoo. E se bisogna partire da lì per comprendere appieno la vis artistica di Ridgway, è necessario anche distaccarsene poiché, se le grammatiche utilizzate ai tempi dei Vooodoo hanno fatto quasi genere a sé, è anche vero che egli oggi ne ha spostato gli accenti. La sua carriera solista è nobile quanto quella della band di origine ed altrettanto grande in quanto capace di diversificarsi. I brani iniziali sono estratti dal suo ultimo album’ Snakebite Blacktop & Fugitive Songs’ che purtroppo non mi sembra figurare nelle classifiche dei migliori albums del 2004 dagli addetti ai lavori (e paradossalmente ci sono tutti i neo-cantautori acustici depressi e tutta la new new wave e mr. Stan un paio di cosine in tali ambiti potrebbe dirle..). “Rockin’ Chair”, l’eloquente e antipresidenziale “Afghan/Forklift”, “Running with the Carnival”, esplicativa del suo mondo, “Talkin’ Wall of Voodoo Blues”, resoconto senza mestizia di una grande avventura, sono tutte eseguite con quella verve di cui un grande crooner, seppure atipico, può disporre. Preziosi gli interventi al piano elettrico e backing vocals della moglie Pietra Wexstun che rendono i brani più decadenti come negli altri progetti della coppia Hecate’s Angels (in cui la Wexstun è protagonista) e l’oscuro Blood (realizzato per le mostre dell’artista Mark Ryden). Il terzo componente dell’acoustic trio è Giorgio Baldi, talentuoso chitarrista e autore italiano che pur vanta un notevole curriculum. Andando avanti, verso la metà del concerto, son stati eseguiti i grandi classici del Ridgway solista, ‘The Big Heat’, surreale nella sua bellezza, e l’ipnotica ‘Camouflage’. Anche l’armonica, ulteriore elemento dal sapore di desertico b-movie viene utilizzata dal nostro con la stessa veemenza che la sua voce non riesce a contenere quando imita il latrare di un coyote. E chi pensava che in tale dimensione roots sarebbe stato impossibile riproporre brani dei Wall of Voodoo si è dovuto ricredere: “The Ring of Fire”, “Factory”, il manifesto “Call of the West” e persino la hit “Mexican Radio”, trasformata in inno tex-mex sono state offerte senza risparmio alcuno. Se il cantautore californiano ci aveva abituati a quegli scenari fatti di stanze di motel e ventilatori perennemente accesi per il caldo assillante, se il suo stile secco e tagliente ci ricordava un Lou Reed dell’altra costa alla guida di un manipolo di nevrotici (post) punks elettronici, oggi e a buon diritto Stan Ridgway può collocarsi idealmente su quella linea immaginaria di personaggi del rock americano che assurgono a dignità letteraria quali Steve Wynn e Howe Gelb.
Autore: A.Giulio Magliulo