Non so perché ma un concerto dei Suicide me lo sono sempre immaginato diversamente. Mi figuravo un’esperienza fisicamente dolorosa, forse estenuante ma sicuramente necessaria. Immaginavo le rasoiate assordanti del synth espandersi fino ad occupare ogni interstizio dello spazio e dell’anima, clangori metallici a creare un senso di claustrofobia industriale, Alan Vega balbettare come un Elvis psicotico le sue storie di ordinaria alienazione e Martin Rev immobile a scrutare un’audience annichilita.
È per questo che al termine dello show milanese del duo newyorkese non riuscivo a nascondere un po’ di delusione.
Poi la verità mi è apparsa nella sua dolente chiarezza.
Ha ancora un senso nel 2004 attendersi dai Suicide un’esperienza live sconvolgente?
No davvero. I nostri hanno già dato. E molto.
Ne sono stati segnati nel corpo e nello spirito e non si poteva certo pretendere che i due signori sulla cinquantina, con occhiali scuri e doppiomento che si sono presentati sul palco del Plastic potessero comunicare lo stesso abisso di disperazione, sensualità e depravazione dei giovani che scuotevano le fondamenta della New York dei 70’s. Troppa acqua è passata sotto i ponti e troppe avanguardie hanno innalzato, un gradino alla volta, la soglia di tolleranza al dolore.
Intendiamoci, la vena artistica dei nostri, almeno per quello che riguarda le prove su disco, non si è ancora del tutto inaridita. Anzi, con il loro ultimo lavoro, American Supreme, hanno dimostrato di non essere rimasti fermi al palo, di aver saputo distaccarsi da quella formula che avevano già portato alle estreme conseguenze nei primi anni della loro carriera. La loro musica oggi si nutre di oltre vent’anni di ritmi urbani. Hip hop, jungle, house vengono brutalizzati, masticati e risputati in una sorta di grottesco karaoke metropolitano.
In fondo è quello a cui abbiamo assistito anche questa sera.
Ma dal vivo il gioco mostra in fretta la corda. Di fronte ad un Alan Vega a dir poco sfiatato e monocorde, alle indistinte basi preregistrate su cui Martin Rev accenna sporadici attacchi cacofonici, la noia inizia in breve a prendere il sopravvento.
Non bastano neanche i vecchi cavalli di battaglia a salvare la baracca. Cheree viene stravolta e trasformata in una specie di lungo valzer da balera padana (per carità, divertente, ma solo per primi 30 secondi!). Nel finale Rocket USA e Frankie Teardrop vengono fusi insieme in una caotica improvvisazione di cui è difficile riuscire ad intuire il senso.
Tutto questo mette un po’ di malinconia ed è inevitabile ritrovarsi a pensare a cosa potevano essere i Suicide 30 anni fa, quando trovarseli di fronte doveva sortire un ben altro, devastante, effetto.
L’impressione che resta (e in fondo non era difficile prevederlo) è che oggi il “rumore”, quello vero, disturbante eppure catartico, non stia più qui, ma che vada ricercato in ben altri lidi. L’importante è non smettere di cercare perché di questo tipo di arte, quella che, per dirla con Nick Hornby, è in grado di fare paura, ci sarà sempre bisogno.
Autore: Diego Ballani