Questa è la migliore delle recensioni possibili, perché non parla della musica ma dei concetti.
“Men Machine” è un concetto; “Autobahn” idem; “Tour De France” era una corsa per ciclisti e ora è un concetto. Lo spazio tempo meccanomusicale de-generato dai vapori industriali di una Germania “nazione della filosofia” ha scavato oltre. E – ieri, nella decade ’70 o decade della magia – è riuscito a plasmare un quartetto di ominidi cyborg che – oggi – noialtri vediamo all’auditorium Gran Teatro di Roma, sperando che non sia, ti prego, 2004.
Tremila persone o giù di lì, al giro di boa della prima ora di iperspettacolo, cercano lo sguardo valvoloide di Hutter, il patriarca del gruppo. Nel tentativo di un’empatia già raggiunta, si chiedono “dicci la verità, ma nel 1967 quale iridescente astronave ti ha rapito mentre ancora fischiettavi “Penny Lane” lungo i corridoi del conservatorio di Dusseldorf?”.
Questa “miglior recensione possibile” se ne frega della musica: quella ormai suona bene anche riarrangiata (ma non stravolta), nella sua primordiale, atemporale, semplicità. I pezzi formano un’impalcatura armoniosa meravigliosamente datata – ormai col più semplice dei software, il meno cretino dei produttori electro te la mette su quando vuoi.
La miglior recensione parla piuttosto dei concetti, abbiamo detto.
Buio nel teatro: sul sipario si formano enormi ombre di umanoidi allineati, ognuno col suo computerworld davanti, pronto a volare via dalle tristezze sensibili. Il sipario si fa da parte e solo l’ultimo e meno fornito degli assistenti di sala non deglutisce di fronte alla Geometria. Più che una composizione di scena è una squadratura del foglio semovente. Io, che la cabala ha voluto accomodato in fila 38 ma in posizione esattamente centrale rispetto al palco(scenico), posso apprezzare a puntino le vinciane proporzioni. I quattro (due originali e due nuovi) si stringono, rigorosamente in linea, su una plancia illuminata di rosso. Alle loro spalle giganti figure piane proiettate lavorano nei tempi sincopati quadri d’avanguardia sovietica, tra le parole in cinemascope “Machine” e “Semi-Human-Being”. E’ Il primo concetto. A cui, con cadenza burocratica, ne seguono molti altri, in una sequela di format d’espressione ideale: le autostrade del primo successo disegnate ad acquerello; insegne al neon; aspirine che si sciolgono nei bicchieri a tempo di batteria e suonini del Commodore; il Radioactivity-konzept – momento di finissima poesia sensoriale – emendato da uno “Stop!” a tutto schermo, contro le follie nucleari. Un’iconografia contemporanea (non post!), antica e attuale, asciugata da ogni sovrastruttura. Sintesi massima, dunque quintessenza. Forse al simposio di Platone hanno partecipato anche Hutter e Schneider.
Solo quando parte “The Model” cantata dal vivo, la musica prescinde dalla fusione dinamica in cui è stata incapsulata per aprirsi “empiricamente” al rock.
Dal 1974 i Kraftwerk si sono fatti in quattro (davvero) per inventarsi una vita appassionatamente estetica che potesse rappresentare la modernissima convivenza di uomo e macchine attraverso la mistura sintetica del techno pop.
Si chiude e si riapre il sipario: al loro posto ci sono automi comandati a distanza. Ipnotizzata dal refrain “we-are.the-robots”, la platea applaude i manichini robotici consapevole omaggiare i “veri” Kraftwerk. Uno spettacolo che rimarrà tra i ricordi più particolari di chi va ai concerti.
Chiusura: Su “Music Non Stop”, gli elegantissimi “padri” fanno l’inchino, uno alla volta e si defilano compostamente.
La lezione all’università è finita, e noi matricole curiose sfiliamo soddisfatte, chi azzardando un commento soddisfacente, chi correndo a comprare il poster a 15 euro (allora non avete capito niente?).
Qualcuno rimane seduto credendo che dopo ci sia un altro corso. “No – faccio notare – il seminario di design industriale è quello appena finito”.
Autore: Sandro Chetta