Finalmente ci siamo: i Mariposa a Napoli. Col recente doppio “Proffiti Now!” siamo arrivati all’ascolto di ben 4 album. E dal vivo? Appena due apparizioni lampo al MEI, due quarti d’ora in cui il sestetto aveva totalmente ignorato il materiale registrato per dedicarsi all’estemporaneità più pura, vuoi, nel 2002, come orchestrina di carabattole e cianfrusaglie varie (massima espressione, forse, del concept di “musica componibile” con cui si auto-etichettano), vuoi, lo scorso autunno, in accompagnamento a un non meglio specificato poeta-narratore ben più in là con gli anni di loro.
E sì, parlando di anni salta subito all’occhio come sia di poco più che di ragazzi che si ha a che fare, benchè la sostanza musicale lasci pensare, per competenza (strumentale) e sensibilità (più ampiamente, artistica), a degli scafati “maneggioni” passati per ogni sorta di esperienza nella vita. O forse hanno bruciato le tappe da ragazzini, chissà. Sta di fatto che gli aretini-messinesi-veronesi (incontratisi tutti a Bologna – DAMS, ovviamente), reduci da una cena evidentemente pantagruelica e sbracata in qualche locanda del centro, di energia sul palchetto (parliamo di un bar con soppalco – meglio qui che in nessun luogo, comunque) ne mettono eccome, approfittando peraltro della location “intima” per conferire ulteriore informalità e libertà a una performance che già si annunciava come abbastanza fuori dagli schemi.
Pochi sanno bene chi siano di preciso. E a confondere ancor più le idee ci pensa l’attacco brasil-carnevalesco che i 6 “barbudos” – a qualcuno ricordano i Grandaddy, Michele Orvieti, con flanella quadrettata e bretelle, pare il figlio di Allen Ginsberg in tenuta tirolese, Enrico Gabrielli potrebbe essere un satanista con tic – finiscono per far degenerare addirittura in ‘Cacao Meravigliao’ (sic!!). Come dire: i brani dei dischi ve li potete sentire anche a casa, no? Ma è giusto l’incipit che da una band nata anche per stupire ci si può aspettare. Il copione da “tour promozionale” comincia infatti subito dopo: ‘Forza Musica’ – il “proclama” che apre l’ultimo lavoro –, ‘Rimpianti a Gas’, forse ‘Camposanto’ e ‘Che Caro che è il Casello’ (la memoria mi fa difetto), e ancora ‘Radio Marea’ e ‘Porto Rispetto’. E le cose cominciano a farsi più chiare, complici anche gli intermezzi “interattivi” col pubblico (dichiarazioni d’intenti e aneddoti vari), gli scambi di sfottò inter-gruppo e qualche carosellata fuori programma (come l’intervallo intonato alla tastiera da Michele): i Mariposa amano sfruttare gli spazi che il “solco sonoro” di un brano mette a disposizione, interpretando e personalizzando quest’ultimo anche con bizzarri capitomboli sonori senza necessità di “straziarlo” oltre la sua naturale struttura (è anch’essa “creatività”, e non è proprio da tutti). Quanto agli “straordinari”, ilarità da vendere, anche quando non c’è un Berlusconi da scimmiottare a suon di “forza musica” (di cui hanno persino fabbricato spille, in tutto e per tutto analoghe a quelle dell’odiato partito). Come una moderna orchestra di Spike Jones, solo più folk-rockeggiante.
Ma i dischi, come detto, sono tanti, e uno sguardo minimo al recente (e parimenti assai ispirato) passato è dovuto almeno quanto l’adempimento dei “doveri promozionali”. E pescano bene i Mariposa, con ‘Undici La’ (da “Domino Dorelli”), e ancor meglio con ‘Portobello’ (episodio conclusivo di “Suzuki Bazuki”), che inneggia a una “rivoluzione”, di cui “è maturo il tempo”, imbottita di “odi farmaceutiche”.
Per una serata a cachet poco più che simbolico qual è questa, potrebbe anche bastare per non ritirar loro la “patente” di musicanti professionisti. Ma è qui che arriva, forse il meglio: calano le nuvole, come a volte è capitato in qualche lavoro di studio. Altrimenti detto: siamo musicisti veri, prima, e più che semplici saltimbanchi. Due lunghi strumentali a cavallo tra prog, jazz, kraut e quant’altro possiate immaginare in direzione free, secondo un crescendo mozzafiato in cui, protèsi verso le ideali “colonne d’ercole” del suonabile, tutti danno tutto (impianto, e chi ti ha settato, grazie): le bacchette di Enzo Cimino a picchiare in tutti 180 gradi a disposizione delle sue braccia-tentacoli, il monumentale clarinetto basso di Enrico e il basso di Rocco Marchi a spingere e pulsare ossessivamente, le tastiere degli altri (tre, perché Alessandro Fiori, lasciato il microfono, si unisce a Michele e Gianluca Giusti) a fraseggiare senza compromessi. Artigianato psichedelico che lascia tutti a bocca aperta, come quei comici che non danno il tempo di assimilare – e cercare di fissare in mente per raccontarlo agli assenti – un numero che ne stanno formulando già un altro.
Che piacciano o meno, non c’è nulla, oggi, qui, di più originale, intenso, vero di loro in circolazione…
Autore: Roberto Villani