Svizzera. Perché non succede mai una sega da quelle parti?! Per una volta l’opulento mondo occidentale sembra aver fatto da sonnifero alle potenzialità culturali di una nazione anziché da stimolo, come se l’energia creativa che nasce da un presupposto di (sobrio) benessere materiale fosse incanalata, in via quasi esclusiva, verso la conservazione/miglioramento di tale status, amputando ogni “eccezione”, ogni elemento – arte compresa – che possa deviare dal lindore programmatorio del seminato e sconvolgere la quotidiana quiete. A Milano e settentrionali dintorni non fanno che metterli in croce su questo: banche, cioccolata, formaggi e orologi a cucù. E (beccatevi ‘sta rima) nulla più.
Poi un giorno sbucano fuori questi Velma. Da Losanna. Che musica si fa – e si ascolta, ma ne si ascolta? – in Svizzera? Mistero. Uguale indifferenza totale, per alcuni, curiosità pazzesca, per altri. E il giorno che scavalcheremo dalla seconda alla prima categoria qualcuno forse ci farà un fischio e cambieremo (finalmente?) mestiere. Sono in tre sul palco (voce, chitarra/electronics, batteria), più un proiezionista neanche tanto dietro le quinte. E se mai gli si deve per forza trovar cucito addosso qualcosa di svizzero, eccolo qua: occhiali da nerd (tutti), facce pulite (tutti), mise ultraperbene con trionfo di gilè scozzese (più o meno tutti, per tacer del completo indossato dal “quarto uomo”). Se ha ancora senso parlare di estetica “alternativa”, questa – in anni come i 2000 in cui è rimasto ben poco da scoprire – non è lontana dall’essere la soluzione migliore.
Non so perché sto sempre a indugiare su simili dettagli, di “contorno” a quella – la musica – che è la nostra materia. Forse la necessità di creare un salto tra la trattazione di un disco e quella di un live show, tra il solo ascolto e l’intrusione, in questo, del “visivo”, che poi è l’artista in persona (credete siano dettagli da poco?). Ecco forse perché, a fine concerto, non me la sono sentita di sganciare qualcosa al banco di ciddì e merch vario. Metteteci anche la particolarissima location (una sorta di ex-cisterna incassata nel ventre del centro storico partenopeo, con gli artisti che possono vedere gli occhi del pubblico puntati da quasi ogni direzione) e avrete qualcosa di non ripetibile, anche col migliore dei dischi (due, più un EP, più vari remix) che i tre misconosciuti elvetici possano aver fatto uscire su label altrettanto oscure.
E siamo ai suoni. Il primo brano andrebbe affidato a testimonianze visto lo sciagurato ritardo con cui andiamo a incrementare il computo dei presenti. Piombiamo lì mentre i Velma, al termine di un pazzesco arrembaggio sonoro, “eseguono” quei tre minuti di assoluto silenzio e immobilità – pienamente assecondati dal pubblico –, uno dei tratti distintivi, a quanto pare, delle loro gigs. Da lì un lento, ipnotico, appena percettibile fraseggio di chitarra e batteria. Lungo, ma non estenuante. Che cresce, a poco a poco, mentre Christophe Jacquet sillaba reiterate lyrics, e segue con le membra, quando in silenzio, l’evolversi del brano. Dopo musica e immagini, ecco il terzo elemento della creatura-Velma: il movimento. No, di danza o coreografia proprio non può parlarsi. Il dimenarsi via via più frenetico del cantante sembra l’effetto di una qualche terapia psicomotoria da seguire, che culmina col mimare quasi le movenze di uno scompostissimo boxeur (un interpretazione comicamente surreale mi fa pensare a una gran presa per il culo da parte sua, ma è fanta-critica che lascio subito perdere). Fase questa che coincide, musicalmente, con l’esito spiccatamente massimalista di una chitarra che fa svanire, in una saturazione dai timbri quasi metal estremo (e pensate da dove si era partiti!!), il precedente aplomb, e di una batteria che si fa incessante martello pneumatico per scandire questa sorta di catarsi.
Se avete proprio bisogno di un paragone, mi viene in mente una versione electro-post-rock degli Oneida: stessi ipnotici crescendo, stessa antitesi 0-100 tra inizio e fine brano e (mmmh… questa la segno come pecca) una omogeneità ben più che velata nella struttura di quasi tutti i brani proposti. In gamba sono in gamba – che avete capito? –, e magari al banco (frattanto preso d’assalto) quello split con dälek avrebbe potuto essermi di gustosa integrazione ai contenuti, già sostanziosi, di questa serata. Ma non è mai troppo tardi. And the beat goes on, intanto…
Autore: Bob Villani