Mentre negli USA il grunge e i suoi alfieri definivano un genere ma soprattutto un “pensiero” e un “movimento”, catalizzando (con una formula musicale-estetica d’innegabile effetto) l’attenzione del mondo e di una generazione desiderosa di trovare una nuova fonte da cui dissetare la propria “identità alternativa”, gli Slint (gruppo nato dalle ceneri degli Squirrel Bait – ricordiamo questo nome poiché ritornerà spesso), nel 1989 danno alle stampe “Tweez” e, nel 1991, il superbo “Spiderland”, probabilmente il più bel disco della sua epoca e sicuramente uno tra i più belli di tutti i tempi, nonché anticipatore di ciò che di meglio gli anni novanta produrranno in termini di post-rock (“Breadcrumb Trail”, “Nosferatu Man”, “Don Aman”, “Washer” – ballata inarrivabile -,“For Dinner”, “Good Morning Captain”, sono in ugual misura la summa della musica indie – e non solo – di fine millennio – e non solo); per restare in tema grunge (e affini), e per comprendere la portata innovativa di “Spiderland”, giova rammentare che il 1991 è anche l’anno di “Temple of The Dog” dei Temple of the Dog, di “Ten” Pearl Jam, di “Nevermind” dei Nirvana, di “Badmotorfinger” dei Soundgarden … (oltre a “Loveless” dei My Bloody Valentine … ma questa è un altra incredibile storia).
Nel volgere di pochi anni, quando il grunge produceva ricchezza e idoli, ristagnando tra rotocalchi, pellicole cinematografiche (si pensi al film “Singles” del 1992) e fatti di cronaca (purtroppo anche tragici), David Grubbs e Jim O’Rourke, due dei più fulgidi musicisti della fine del primo millennio (e oltre), avrebbero firmato un sodalizio che avrebbe fatto la storia; David Grubbs (già con gli Squirrel Bait – da citare “Skag Heaven” del 1987 -, i Bitch Magnet – da citare “Umber” del 1989, registrato però senza Grubbs – e i Bastro – da citare “Diablo Guapo” del 1989), nel 1991, con Bundy K. Brown (ex Bastro), fonda i Gastr del Sol con cui, nel 1993, dà alle stampe l’iconico “The Serpentine Similar” (la lenta e riflessiva “A Watery Kentucky”, l’eccezionale “Ursus Arctos Wonderfilis” – sarà degnamente presente in versione live su “We Have Dozens Of Titles” – e la perfetta “Even The Odd Orbit” non sono altro che l’apoteosi di un disco incredibile, capace di distinguersi anche negli “esercizi” per pianoforte d’impronta jazz quali “A Jar Of Fat” e “Eye Of Street”); in “The Serpentine Similar” è presente anche John McEntire (altro grandissimo musicista e anch’egli già nei Bastro), accreditato come “additional percussion”.
Dopo “The Serpentine Similar”, Brown e McEntire decidono di uscire dalla formazione per entrare a far parte dei Tortoise e al loro posto, come membro ufficiale del gruppo, subentra Jim O’Rourke (va necessariamente detto che i Tortoise sono altro gruppo eccezionale che meriterebbe un approfondimento particolareggiato; da menzionare quantomeno i loro eccelsi “Millions Now Living Will Never Die” del 1996 – che tra le righe tanto deve ai Neu! e a Steve Reich – e “TNT” del 1998, entrambi con David Pajo degli Slint. David Pajo, a nome Papa M, nel 1999, pubblicherà il bellissimo “Live From A Shark Cage”; va poi aggiunto che l’altro chitarrista degli Slint, nonché ex Squirrel Bait, Brian McMahan, darà vita ai The For Carnation con cui pubblicherà gli altrettanto bellissimi “Marshmallows” del 1996 e “The For Carnation” nel 2000).
Con O’Rourke (ed ancora presenti Brown e McEntire; McEntire continuerà negli anni a collaborare con i Gastr del Sol), i Gastr del Sol pubblicano prima, nel 1993, il singolo “20 Songs Less” (titolo di cui torneremo a parlare poiché presente in “We Have Dozens Of Titles”) per poi, nel 1994, affondare la lama con il più estremo “Crookt Crackt Or Fly” (in cui spiccano la folle e bella “The Wrong Soundings”, il rock/noise violento di “Is That A Rifle When It Rains?” e le ostiche “Every Five Miles” e “Work From Smoke” – brano, quest’ultimo, che Robert Fripp avrà sicuramente apprezzato e con lui i The League of Gentleman e i The League of Crafty Guitarists). In “Crookt Crackt Or Fly” i Gastr del Sol esasperano i sottesi eccessi di “The Serpentine Similar” marcando con spigoli d’avanguardia free; solo “The C In Cake” indulge verso un più quieto scorrere.
Sempre del 1994 è anche il più che riuscito EP “Mirror Repair”, caratterizzato dalla pregevole “Eight Corners” e dalla cavalcata di “Dictionary Of Handwriting” (su “We Have Dozens Of Titles” è presente una bella versione dal vivo di cui si parlerà successivamente). Con “Mirror Repair”, Grubbs e O’Rourke si ingentiliscono rispetto a “Crookt Crackt Or Fly” preparando i solchi per ciò che verrà seminato in futuro.
Nel 1995, è la volta dei diciassette minuti del singolo/EP “The Harp Factory On Lake Street”. I confini con la musica classica del novecento e l’avanguardia vengono totalmente abbattuti grazie anche alle numerose collaborazioni presenti; con “The Harp Factory On Lake Street” i Gastr del Sol chiudono il loro ciclo di “studi”, dimostrando di averne assorbito la dottrina e, maturatala, la trasformano in perfetto contenuto per sublimarla nei due successivi lavori discografici, esatto esempio di sostanza e forma. Del 1995 è anche il singolo “The Japanese Room At La Pagode/May” a nome Gastr del Sol e Tony Conrad; su “The Harp Factory On Lake Street” e “The Japanese Room At La Pagode” avremo modo di tornare successivamente poiché entrambi i titoli sono presenti in “We Have Dozens Of Titles”.
“Upgrade & Afterlife” esce nel 1996 e se in apertura, con “Our Exquisite Replica of “Eternity””, lascia presagire nuove inesplorate rotte di sperimentazione cinematografica, si immortala nel sublime cantautorato portato ai limiti, nelle visioni destrutturate e nelle ossessioni delle poetiche e laceranti “Rebecca Sylvester” e “The Relay”, del soliloquio di “Crappie Tactics”, delle più sperimentali e noise “The Sea Incertain” e “Hello Spiral”; ci sta anche spazio per i richiami folk di “Dry Bones In The Valley (I Saw The Light Come Shining ‘round And ‘round)”, graditissimo omaggio al maestro John Fahey (autore, è bene ricordarlo, di capolavori quali “America” del 1971 ma soprattutto “Fare Forward Voyagers (Soldier’s Choice)” del 1973, altro lavoro discografico annoverabile tra i più bei dischi di tutti i tempi); in “Upgrade & Afterlife”, i Gastr del Sol continuano a farsi coadiuvare da molteplici musicisti tra cui, oltre a McEntire, Tony Conrad, Mats Gustafsson … per quello che, a parere di chi scrive, è l’opera a firma Grubbs e O’Rourke, nel complesso e per interezza, più compiuta.
Se con “Upgrade & Afterlife”, Grubbs e O’Rourke avevano pubblicato un piccolo gioiello, con il successivo “Camoufleur” del 1998 si ripetono in termini di qualità, mutando però la forma con l’introduzione di elementi più convenzionali e vicini a un formato canzone; il risultato è il punto d’incontro tra sperimentazione e pop-rock, per un disco che se rinuncia in parte alle “estremizzazioni” si fa forte di una maggiore immediatezza.
Basterebbero, in apertura di disco, solo la totalizzante “The Seasons Reverse” (scritta con Markus Popp degli Oval), seguita dalla splendida “Blues Subtitled No Sense Of Wonder” (anche questa scritta con Markus Popp ed entrambe riproposte in versione live su “We Have Dozens of Titles”), a decretarne il valore, ma ci sta ancora spazio per la festosa e folk “Black Horse” (che non rinuncia a un finale rarefatto), per la morbida e sognante “Each Dream Is An Example” (ancora con Markus Popp), per l’intima ballata “Mouth Canyon” e per “Bauchredner”, nella cui prima parte ritornano influenze da Takoma Records; alla sola “A Puff of Dew” è riservato il ruolo di brano “oltre”, in cui la presenza di Popp sembra prevalere su quella di Grubbs e O’Rourke. Da annoverare, poi, tra i vari ospiti, in sala di registrazione la presenza anche di Rob Mazurek (che lascia il segno nell’assolo di “The Seasons Reverse”).
E così, dopo ventisei anni da “Camoufleur”, i Gastr del Sol pubblicano “We Have Dozens of Titles” (Drag City) contenente registrazioni live e “previously uncollected studio recordings and”: “Nearly twenty-five years after disbanding, Gastr del Sol have unpacked their archive, stringing together an alternative view to their genre-melting 1993-1998 run. This assembly of previously uncollected studio recordings and beautifully captured unreleased live performances forms a spacious ode to the flux that was their métier” (si legge sul sito della Drag City https://www.dragcity.com/products/we-have-dozens-of-titles consultato il 4 maggio 2024).
L’abbrivio è affidato a “The Seasons Reverse (Live)” (uscito anche come singolo quale anticipazione del disco); l’aspettativa prima dell’ascolto è altissima (per me in modo particolare per l’amore che provo per questo brano e perché sono un cultore delle versioni live) e forse per questo, anche dopo ripetuti ascolti, emerge un po’ di delusione. L’esecuzione è, infatti, vedova sia della voce che del bell’assolo di cornetta di Rob Mazurek, né salvano gli interventi di pianoforte/tastiere/synth … tolto il fascino dell’esibizione dal vivo, questa versione non si fa preferire a quella di “Camoufleur”, né si dimostra alternativa particolarmente affascinante (fortunatamento resterà un caso unico rispetto a quanto si ascolterà in seguito).
Bella è “Quietly Approaching” che, tra sospensioni di pianoforte e silenzi, dà un senso di attesa, rotta dalle incursioni ora “ambient”, ora “orchestrali”, che ne aumentano la tensione.
L’eccelsa “Ursus Arctos Wonderfilis”, qui presente anch’essa in versione Live, si conferma un capolavoro e, differentemente da “The Seasons Reverse”, risulta più che affascinante in questa splendida versione dal vivo che ne esalta umori e intensità.
Ottima è “At Night And At Night” che colpisce nella commistione tra noise, industriale e musica classica che fa da inaspettata apertura un riuscito, successivo, momento per voce, chitarra e batteria (affidata a John McEntire, mentre al basso è Bundy K. Brown) in stile Gastr del Sol.
L’ascolto continua, su livelli egregi, con la sperimentale “Dead Cats In A Foghorn”, dilatato paranoico oceano sonoro da naufragio in quiete tempesta.
Bello il “bozzetto” per pianoforte e voce della già citata (quale singolo del 1995) “The Japanese Room At La Pagode”, poetica e minimale … anche nella sua pausa centrale.
“The Bells of St. Mary’s” (altro singolo uscito quale anticipazione del disco) poco convince nella sua non ottimale commistione di elettronica e pianoforte.
“Blues Subtitled No Sense Of Wonder (Live)”, nella sua estesa versione di 11:00 minuti, è esempio di come dovrebbero essere i live; l’esecuzione si distacca dalla versione contenuta su “Camoufleur”, diventando altro (ho sempre pensato che in fondo i live dovessero principalmente servire a questo: a fotografare l’unicità del momento e diversità, senza proporre copie pedisseque dei brani in studio). L’assenza del cantato non si fa accusare per uno strumentale dissimile che colpisce.
“20 Songs Less” (anche essa già citata come singolo del 1993 e originariamente divisa tra i due Side del 7″) si fa apprezzare tra sperimentazione, rumorismo e frammenti di chitarra (la batteria è affidata a John McEntire, mentre il basso a Bundy K. Brown).
“Dictionary of Handwriting (Live)”, già di per sé brano incredibile come presente su “Mirror Repair”, è impreziosito da una “prefazione” di chitarre e “alterato” da un’ossessiva e più cupa narrazione nel dialogo tra Grubbs e O’Rourke che, in uno con la scomposizione (portata sino all’impercettibilità) del tema centrale, non fa avvertire la mancanza della ritmica (di batteria), dell’incedere cavalcante e del pregnante tema stesso; come per “Ursus Arctos Wonderfilis” e “Blues Subtitled No Sense Of Wonder” è una valida versione alternativa a quella già nota.
La suite “The Harp Factory on Lake Street” (altra composizione già menzionata del 1995) è sicuramente tra i “recuperi” più interessanti, rappresentando, come detto, una più compiuta crasi con la musica classica del novecento, l’avanguardia e lo stile Gastr del Sol, in cui le tensioni e le loro risoluzioni dominano con moderata angoscia negli arrangiamenti dei fiati, prima che il pianoforte e la voce entrino a disegnare la consueta ed inimitabile poetica romantica e decadente; una coda strumentale di rarefatto pianoforte, convulso solo per brevi momenti, e lieve elettronica chiudono un più che riuscito momento d’ascolto.
Chiude “Onion Orange (Live)”, un viaggio intenso e senza fine tra corde pizzicate, bordoni, elettrificazioni … tanto intimo quanto lisergico, che si sublima nel contrasto tra le astrazioni romantiche e tristi dei “pensieri” della chitarra e le interferenze ai limiti del noise.
Terminato l’ascolto si può dire che “We Have Dozens of Titles” va degnamente a completare una discografia meravigliosa di un gruppo storico che ha saggiamente attinto alla propria storia.
Per completezza espositiva, ma soprattutto per rilevanza artistica, è opportuno annoverare anche alcuni lavori solisti di David Grubbs quali l’irrinunciabile “The Thicket” del 1998 (memorabili “The Thicket”, “Two Shades Of Blue”, “Fool Summons Train”, “Buried In The Wall”; album incredibile anche nei brani brevi e più sperimentali quali “Orange Disaster”, “40 Words On ‘Worship’”) e l’ottimo “The Spectrum Between” del 2000 (“Seagull And Eagull”, “Whirlweek”, “Gloriette”, “Preface”, “Two Shades Of Green” …). Nel 2002 Grubbs darà alle stampe il più “rock” “Rickets and Scurvy” in cui la presenza dei Matmos daranno frutti come nella bella “Transom” mentre toglieranno non poco coi i due strumentali “Precipice” e “Crevasse”; per il resto il disco si distingue per “A Dream To Help Me Sleep”, “The Nearer By and By”, “Pinned To The Spot” … e che, se epurato dei due suddetti strumentali, sarebbe stato impeccabile.
Per Jim O’Rourke, da ricordare lo splendido “Bad Timing” (ogni brano è di pregio e per tutti “94 The Long Way” e “Bad Timing” ; “Without Whom: Tony Corrad, John Fahey e Jack Nitzsche” si legge nelle note di copertina) e i 47:33 minuti di “Happy Days” (“Without Whom: Tony Corrad e John Fahey” si legge nelle note di copertina) entrambi del 1997 e il più accessibile “Eureka” del 1999 (da citare “Prelude to 110 or 220/Women of the World” con l’omaggio a Ivor Cutler, “Ghost Ship In A Storm”, “Eureka”, “Happy Holidays” …; nel disco ci sta anche spazio per “Something Big” di Burt Bacharach e Hal David). Non si menzionano le collaborazioni di O’Rourke dato lo smisurato catalogo; tra le tante, celebre quella con i Sonic Youth oltre a quella con i Fire! di cui si è avuto modo di parlare su queste pagine, sulle quali si è recensito anche il concerto del 24.4.23 di O’Rourke con Eiko Ishibashi.