I Mudhoney sono l’ultima band rimasta di quella scena di Seattle che ruotava intorno alla Sub Pop della prima ora. La ragione probabilmente è dovuta al fatto che rispetto alle altre formazioni storiche i Mudhoney hanno sempre mantenuto un basso profilo, senza quelle crisi esistenziali di loro esimi colleghi che hanno portato all’estinzione di una generazione ed inoltre sono sempre stati molto più vicini al punk ed al garage, garantendo così una possibilità di fruizione nel tempo della loro musica molto maggiore rispetto alla cupa epica ‘hard’ di certi rocker depressi, un po’ oscurata nell’inverno del grunge. Questa leggerezza in qualche modo li ha premiati permettendo loro in questi venti anni di saltellare sornioni dai ’70 ai ’60 e continuare a girarci intorno. E così, tra indolente innocenza ed astuto calcolo il tempo tiranno li aspetta al varco. Per essere più espliciti, anche per le prime file di giovanissimi esiste una linea netta di demarcazione che è la seconda metà degli anni novanta, quella dell’album “My Brother The Cow”. Anche per loro, molti dei quali non erano ancora nati in quel 1989 in cui chi scrive acquistava una copia in vinile dell’omonimo primo album, esistono i primi Mudhoney e quelli ‘di dopo’. Un raro caso di accordo transgenerazionale a conferma della potenza di quella musica, di quella band che ci consegnava senza tante cerimonie alla fine degli anni ’80 Stooges, Blue Cheer e Sex Pistols al prezzo di uno. Ed infatti il concerto all’inizio è quasi freddo (quando l’anno scorso suonarono a Roma, locale e pubblico diverso, il primo accordo suonato corrispose ad una fantastica onda d’urto!) poiché propongono almeno quattro canzoni che vanno al di là di quella linea, tratte da “The Lucky Ones”. Tocca aspettare “You Got It” per cominciare a vedere gente felice a cantare e scapocciare. La successiva “Suck You Dry” molto apprezzata mantiene la stessa tensione irriverente prima di cominciare a smorzarsi di nuovo per l’avvicinamento a quella zona intermedia, con brani come “Blinding Sun” e “What Moves The Heart”. Però ora si entra nella fase più bella del concerto, laddove i Mudhoney sanno cosa è che ci si aspetta da loro, tirando fuori la malatissima “Sweet Young Thing Ain’t..”, la divertente “Good Enough”, il superclassico “Touch me I’m Sick” e addirittura “Get Into Yours” e “When Tomorrow Hits” dal primo inarrivabile disco. Ci sono ragazzini – poco più che bambini – che saltano sul palco ed abbozzano innocui stage diving, con acconciature in pieno grunge style che fanno sorridere il buon Mark Arm che non ha più lo sguardo da tossico allucinato di una volta. Ci sono quasi quaratenni che invocano minacciosi e a piena voce “Hate The Police” che verrà eseguita con molta, forse troppa teatralità da un leader primadonna che cerca alla fine di mantenersi con la band il “posto fisso” inserendoci dentro anche una “In and Out of Grace”. E’ tutto molto bello, ma è revival! Questa musica non ha più l’odore della giovinezza.
Autore: A.Giulio Magliulo
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