La premiazione di “Still Life” al Festival di Venezia ispirò alcuni malumori dettati non già dalla qualità del film bensì dalla scarsa attenzione che la programmazione gli aveva dedicato. Alcuni critici confessarono di non aver neanche potuto assistere alle poche proiezioni riservate all’ opera che poi in seguito avrebbe vinto l’ambito Leone d’oro nella cerimonia finale tenutasi il 9 settembre 2006.
Ripensando all’opera insignita nell’edizione precedente del festival, “Brokeback Mountain”, la giuria stavolta ha condotto un indicativo cambio di tendenza preferendo una pellicola fortemente distante da quella di Ang Lee. Il film di Zhang Ke è la traccia di un progetto cinematografico estremo, quasi ostinato nella sua apparente assenza di fermento narrativo. Sarebbe sbagliato collocarlo nel filone di quelle produzione orientali che mettono in scena il trionfo dei tempi lunghi e delle reticenze autoriali perché in realtà Still Life si distingue da queste esperienze grazie ad una riluttanza spiazzante nei confronti dell’estetizzazione. Ciò, oltre ad ostacolare ogni rimando tassonomico, pone il dubbio che la giuria di Venezia abbia voluto dare la dimostrazione di un mero esotismo piuttosto che un sincero apprezzamento del film.
Questo sospetto è corroborato anche dall’esito della Berlinale che ha destinato il suo Orso d’Oro, in assonanza con le direttive veneziane, al cinese Quanan Wang per il suo “Tuya de hun shi” (malaccolto dalla critica teutonica). Al di là delle motivazioni (magari fortunose) che hanno posizionato i riflettori su un regista finora poco esaltato come Zhang Ke, è bello assistere a tutta questa attenzione per un’idea di cinema molto libera e temeraria. In fondo Still Life è un grande messa in scena dell’invisibile e dell’inattingibile, due entità così vaghe che avvolgono con la loro diafanità tutte le azioni umane. L’elemento dell’acqua qui è presente in maniera ossessiva a varcare l’incedere narrativo, il quale non presenta un ritmo propriamente detto: o meglio, il suo ritmo è l’aritmia di una regia che mira a farsi quasi filtro inesistente. La storia appare più come una congiunzione di varie rushes accomunate in direzioni apparentemente disparate; inoltre l’assenza di particolari e primi piani mette in indiscusso rilievo la supremazia della sequenza lunga che è magicamente immune dalla staticità: sono visibilmente costanti vari elementi di scena che coesistono pur non raggiungendo mai un qualunque accenno di orchestrazione. Zhange Ke fissa l’istantanea di paesaggi perennemente impenetrabili, in effetti già sommersi anche se non fisicamente: la location del film è infatti la città di Fengjie che sarà sommersa dalla costruzione di una diga voluta fin dai tempi di Mao. I luoghi che campeggiano dietro le storie di due amori “in contumacia” sono distrutti oppure si distruggono in diretta con l’occhio della macchina da presa (e con il nostro). Cadono in giù gli edifici a causa di una demolizione condotta stancamente e con una serie di rumori incredibilmente melodici e mai molesti, ma questa progressiva distruzione verso il basso è infranta dalla figura enigmatica di un palazzo “ribelle” che spicca il volo per giunta, grazie alla propulsione di un fuoco che è in completo contrasto con l’elemento-acqua continuamente in primo piano. I protagonisti sono sull’orlo di questa natura morta ma ancora viva (oppure natura viva ma già morta, che dir si voglia) e sono in clamorosa sintonia con questo tripudio della dissoluzione.
Sicuramente meno passionale di “The World”, il film di Zhang Ke precedente a questo, Still Life rappresenta però una delle più avvincenti creazioni reperibili sul piano internazionale.
P.s. in attesa del nuovo lavoro dal titolo “Ciqing shidai”, in cui apparirà immancabilmente la prode Tao Zhao.
Autore: Roberto Urbani