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Il soliloquio di David Pajo (Papa M) nel bello e ‘assurdo’ “Ballads of Harry Houdini”

di Marco Sica
3 Ottobre 2024
in Focus On, Recensioni
Tempo di lettura: 5 minuti
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David Pajo sta tornando alla ribalta confermando le sue innate capacità di scrittura che esulano da ogni convenzionale schema.

Recentissima è la stampa, a nome Aerial M, di “The Peel Sessions”, contenente la sessione di registrazioni effettuate il 4 febbraio del 1998 per lo “show” di John Peel, di cui si è parlato su queste pagine (si veda ‘David Pajo “recupera” con gli Aerial M l’ottimo “The Peel Sessions”’); in tale occasione si era evidenziato come Pajo si potesse considerare “uno dei pilastri della musica degli anni novanta” avendo con gli Slint consegnato alla storia nel 1991 l’eccelso “Spiderland” (tra i più influenti e bei dischi di sempre) oltre ad aver partecipato agli splendidi “Millions Now Living Will Never Die” del 1996 e “TNT” del 1998 entrambi a firma Tortoise (per approfondimenti si rimanda sempre alla succitata recensione).

Pajo, nel 1999, aveva poi licenziato a nome Papa M il bellissimo “Live From A Shark Cage”, lavoro in cui aveva dimostrato di aver assimilato le decostruzioni folk di John Fahey (da menzionare di Fahey il suo inarrivabile “Fare Forward Voyagers (Soldier’s Choice)” del 1973), così come in parte fatto anche dalle due legende David Grubbs e Jim O’Rourke, rileggendole in chiave a lui coeva, ora disturbandole con elettronica o con strali noise, ora deviandole verso aperture post-rock, minimali, psichedeliche… (la pastorale “Roadrunner”, la dolcemente nostalgica “Pink Holler”, l’ipnotica e ossessiva “Plastic Energy Man”, la lisergica “Drunken Spree”, “I Am Not Lonely With Cricket” – con i suoi richiami a Steve Reich -, la narrativa e cinematografica “Up North Kids”, l’eccelsa e totalizzante “Arundel II” … ne sono ferma testimonianza). Scrissi che, con un “ardito” parallelismo, mi veniva in mente un altro piccolo gioiello “solista”: “The End of the Game” di Peter Green.

A completamento della più volte citata recensione, si era poi detto: ‘Per completezza espositiva va detto che Pajo, come solista (sia come Papa M che anche a nome Pajo), a partire dal 2000, si è dedicato, con diversi dischi ed EP, a un più “accomodante” e meno segnante cantautorato indie-folk”; per tutti a nome Papa M del 2001 sia il buon “Whatever, Mortal” (in cui emergono la desertica “Over Jordan”, l’elettrica “Beloved Woman”, la più indie “Krusty”, la particolare e “sacrale” “The Lass Of Roch Royal”, l’allucinata “Sabodage” con tanto di finale “rāga”… ) che il riuscito e marcatamente indie “Songs Of Mac” (composto dalle sole “So Warped”, accreditata a Aubrey Rozier e “The Person And The Skeleton”, accreditata a Mac Finley), per poi tornare a “sperimentare” prima con il meno ispirato, elettrico e a tratti aspro e disorganico “Highway Songs” del 2016 (gratuiti appaiono brani come “The Love Particle”, “Coda”, “Green Holler” …, distanti dalle passate poetiche brani come “Adore, a Jar”, “DLVD”…, non alla sua “portata” brani come “Bloom”) e poi con l’“acustico”, introverso e godibile “A Broke Moon Rises” del 2018 (da citare la mesta “Walt’s”, “A Lighthouse Reverie” – nella cui prima parte tornano i richiami a Steve Reich e anche a Robert Fripp -, la lunga e rarefatta “Spiegel Im Spiegel”). Del 2024 è, infine, il 7″ in cui Pajo e Mike Watt si scambiano a vicenda i ruoli di “autore” e di “esecutore” per i piacevoli “Long May You Burn” e “Fireman Hurley”.

È ora, quindi, la volta della nuova pubblicazione a nome Papa M: “Ballads of Harry Houdini” (Drag City) – ascoltato in “anteprima” (l’uscita è prevista per il 22 novembre 2024) -, disco con cui Pajo compie continui giochi d’illusione confezionando un lavoro intimo e riflessivo che se pur apparentemente dissimile da brano a brano, fa di questa diversità la sua forza mostrandosi comunque coeso e legato da un invisibile filo conduttore; ciò a differenza di lavori passati quali “Highway Songs” che si era definito (come sopra visto) a tratti disorganico.

Senza compromessi è l’apertura affidata ai circa otto minuti di “Thank You For Talking To Me (When I Was Fat)”; dopo un robotico e “sgraziato” loop ritmico in costruzione e mutazione, la chitarra di Pajo si libera distorta a ripiegarsi su se stessa fino a destrutturare gorghi e suoni.

Con “Ode to Mark White” (anche singolo) si volta pagina per un cantautorato folk in cui le intenzioni e la voce roca di Pajo evocano il Tom Waits più rilassato.

“People’s Free Food Program” espone a barlumi di elettronica cadenzata strali di chitarra, riportando l’ascolto indietro nel tempo alle sperimentazioni di Manuel Göttsching e dei NEU!, prima che la bella “Barfighter” restituisca un robotico distopico rock che si rivela tremendamente funzionale nella sua lucida follia e che Pajo immortala con un assolo di chitarra a tratti “dissonante” e con delle “scolastiche” scale in esatta sintonia con il tutto che mi hanno fatto ricordare “Rodeo In Joliet” da quel capolavoro che è “Goat” dei The Jesus Lizard con alla chitarra un’altro mostro sacro delle sei corde di nome Duane Denison.

L’orecchio inizia a subire le prime dissociazioni per i continui cambi di registro (da brano a brano) quando “Rainbow Of Gloom” fa girare una tradizionale ballata rock/folk, tanto abrasiva nei suoni quanto dolce nella melodia, con assolo di chitarra in stile blues anni settanta.

Chiude un bel disco, piacevolmente “assurdo”, l’assolata e calda “Devil Tongue” dove un’essenziale ritmica d’elettronica quasi caraibica è sfondo per le divagazioni chitarristiche di Pajo, sospese tra malinconiche pennellate e allucinazioni. 


https://www.instagram.com/cestcadavidpajo/
https://www.dragcity.com/news/2024-09-17-david-pajo-s-vanishing-trick-revealed

Prec.

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