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Moor Mother inverte la rotta e “guardando negli occhi un’eredità violenta” dà alle stampe un disco profondo, intenso e senza compromessi

di Marco Sica
18 Marzo 2024
in Focus On, Primo Piano
Tempo di lettura: 6 minuti
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Quando pubblicò nel 2016 l’ottimo “Fetish Bones”, sin dall’apertura affidata a “Creation Myth”, Moor Mother (Camae Ayewa) chiarì la volontà di miscelare, spoken, rigurgiti etnici, l’elettronica più “ostica”, noise, industrial … tutto con piglio militante e di denuncia (“I’am capturing the grunts, groans and wails of African American History of Rebellion for an awakening of meridians that run trough the body, earth, and space” – si legge tra l’altro nelle note interne del vinile), forte di una scrittura di livello (ne sono fulgidi esempi “Deadbeat Protest”, “KBGK”, “Chain Gang Quantum Blues”, “Tell Me About It”, “Cabrini Green x Natasha Mkenna”, “Washington Park” …), per un lavoro discografico coeso, crudo e abrasivo che trovava un’apertura solo nella conclusiva “Time Float”.

Dopo le “astrazioni” di “The Motionless Present” (2017), complici anche funzionali partecipazioni, il miracolo compiuto con “Fetish Bones” veniva replicato nell’altrettanto ottimo e (s)graziato “Analog Fluids of Sonic Black Holes” del 2019 (per tutte “After Images”, “Black Flight”, “LA92”, “Shadowgrams”, “Private Silence”, “Passing of Time” …) che, se da un lato perdeva l’incoscienza e la violenza degli esordi, dall’altro affinava e a suo modo ingentiliva l’ascolto, dimostrandosi più maturo e meno istintivo: “Spinning shadows/A revealing of temporal roots/that serve as the quanta DNA of our reality./The shadow map, The past imagination/ An Analog rendering power” – si legge nelle note si copertina.

Ed è questo il periodo artistico più interessante di Camae Ayewa, intenso, diretto e senza “compromessi”. “Compromessi” che nel tempo sono affiorati sempre più, consentendo a Moor Mother di accedere a un pubblico più vasto, e di riscuotere successo su ampia scala; successo, va detto, comunque pienamente meritato.

Approdata come voce al collettivo Irreversible Entanglements (da citare quantomeno i loro “Who Sent You?” del 2020 e “Open the Gates” del 2021), fatto proprio quell’universo sonoro, nel 2020, sempre a nome Moor Mother, Camae Ayewa dà alle stampe un altro disco di valore, “Circuit City” (sua prima “opera teatrale” divisa in quattro atti – “Reverse gentrification of the future now” – si legge a grandi lettere sul retro del vinile), in cui la matrice sonora viene definitivamente “addolcita” e vira verso timbriche meno “ostiche”, i brani si allungano, la componente jazz e free jazz emerge indiscussa e la voce si avvicina al canto (per tutte “Act 3 – Time Of No Time”); non a caso collaborano alle registrazioni i membri del collettivo Irreversible Entanglements. 

Dopo pubblicazioni “intermedie” e collaborazioni, da menzionare del 2020 lo sperimentale “Offering: Live at Le Guess Who” con Nicole Mitchell e, con Billy Woods, l’interessante, cupo e tribal/urban “Brass” (“Blues Remembers Everything The Country Forgot”, “Maroons”, “Gang for a Day”, “Chimney”, “Scary Hours”, “Giraffe Hunts” …), Moor Mother compie la definitiva “rottura” con il passato con “Black Encyclopedia of the Air” del 2021, in cui evapora ogni scarnificazione e ustione per lasciare spazio a uno spoken/rap, pop anche nelle allucinazioni.

Il compromesso è stato quindi raggiunto, e con esso un “saggio” equilibrio tra sostanza e apparenza; la musica non fuoriesce più da un underground industriale e reietto, ma è compressa con cura e omogeneizzata in molteplici ramificazioni per un piacevole mainstream d’élite (“Shekere”, “Vera Hall”, “Rogue Waves”, “Made A Circle”, “Zami” …).    

Il 2022 è, poi, l’anno di “Jazz Codes” e di “Nothing to Declare”, quest’ultimo a firma 700 Bliss (duo composto da Moor Mother e da DJ Haram e autore già di “Spa 700” del 2018), due lavori discografici antitetici ma al contempo, nel raffronto/scontro tra essi, chiaro esempio dell’evoluzione formale raggiunta da Camay Ayewa.

Se con il bel “Nothing to Declare” c’è un ritorno ad un canone più, visionario, (de)strutturato, unitamente viscerale e alienato e “freak”, di cui il brano eponimo ne riassume magnificamente l’essenza (e con esso “Totally Spies”, “Nightflame”, “Anthology”, “Bless Grips”, “Candace Parker”, “Capitol”, “Crown”, “More Victories”, “Lead Level 15” …), rappresentando, a sette anni di distanza, l’upgrade di “Fetish Bones”, “Jazz Codes” è invece miscellanea di generi che affondano nella cultura musicale afroamericana, una patchwork musicale cucito su sonorità morbide e notturne, basti pensare alla sequenza dei tre brani di apertura “Umzansi”, “April 7th” e “Golden Lady”, ed ancora a “Ode To Mary”, “Blues Away”, “Real Trill Hours”, “Evening” …, interrotte da brevi fratture come “Joe McPhee Nation Time Intro” o cortocircuiti come “Joe “Noise Jism” (di “Jazz Codes” esiste anche una versione estesa).  

Ora, nel 2024, Moor Mother decide di compiere un’inversione di rotta, di mettere da parte ogni compromesso, pubblicando “The Great Bailout” (Anti-Records) avendo a tema il colonialismo e la schiavitù operati dalla Gran Bretagna, confermando la propria sensibilità e l’impegno per i contenuti e nelle liriche.

Su queste pagine, nel parlare di Matana Roberts, si era fatto un parallelismo con la letteratura statunitense femminile attenta alle proprie radici africane: “E a ben ascoltare, la miscellanea di jazz, free jazz, reading, avanguardia, folk …, intrisa di un misticismo legato alle radici della tradizione “americana”, è dirompente nei lavori discografici di Matana Roberts che diventano una “collana” di romanzi storico/sociali, narrazione in musica e parole … con in primo piano il popolo afroamericano (verrebbero alla mente, in una ipotetica comparazione al femminile tra musica e letteratura, le scrittrici Alice Walker e Toni Morrison …)”; ebbene tale parallelismo lo si può estendere anche a Camay Ayewa.

In “The Great Bailout” la narrazione, nelle musiche e nelle voci, diventa “biblica”, il morbido si fa spigoloso, la notte cala fonda, nera …, incatenando l’ascoltatore a una tribolata e sofferta traversata che è da subito avvolta da una coltre di nube che obnubila la vista nei canti-invettive dei 9:54 minuti di “Guilty” (ft. Lonnie Holley e Raia Was) e che imperla negli arpeggi (nelle note compare il nome di Mary Lattimore) la colpa e la misericordia “Pay off the trauma … Pay off the crimes … You hand out to surrender” … che riverbera gli orrori della schiavitù sino alla nostra contemporaneità.

La tempesta continua a infuriare “The storm keeps raging” e la tensione aumenta e va in extrasistole nelle pulsazioni asfittiche e claustrofobiche di “All The Money” (ft. Alya Al-Sultani) e negli spettri che evocano un’edificazione maculata: “Where do they get all the money? … Who helped build thе country? … Who’s gеtting deported? … Who’s without citizenship?”. 

Con “God Save The Queen” (ft. Justmadnice) c’è un’apparente quiete, la musica affidata a singulti di elettronica e a fiati naviga scorgendo frammenti di cielo tra le sempre incombenti nubi.

“Compensated Emancipation” (ft. Kyle Kidd) è un felice ritorno alle abrasioni noise di matrice industrial e congeda, tranciante, un Side A di assoluto spessore “The fact of blackness how anti blackness colonized the domains of truth”.

Apre il Side B la totalizzante ed esatta “Death By Longitude” che vomita e rigurgita anime e fantasmi dall’inferno, di un Cerbero che dilania … si manifestano tutte le dannazioni di Diamada Galas rilette da un’ispirata Moor Mother: “Europe is God and everything else is the Devil … And here we are God and Devil … There is no need to time travel here … Bailout for losing all humanity all mind all dignity compensated emancipation …”.

“My Souls Been Anchored” è intermezzo didascalico che conduce a “Liverpool Wins” (ft. Kyle Kidd) in cui i suoni, i rumori, gli automatismi meccanici, ancora noise e industriali, si contrappongono ai canti definendo un altro aulico momento di “The Great Bailout”: “How long did it take to pay off the trauma”.

Tra le correnti di “South Sea” (ft. Sistazz of the Nitty Gritty) si muovono sia sperimentazioni vocali che afflati di assolati fiati, screziature noise, rumori e fraseggi di tastiere che ora appoggiano, ora sostituiscono, una narrazione netta e incisiva; il registro complessivo diviene meno mesto e scuro, le tensioni si allentano senza però spezzarsi.

Ai 9:00 minuti di “South Sea” si “oppongono”, chiudendo il disco, i 53 secondi di “Spem In Alium” … claudicante marcia di disperata speranza …

A corredo del tutto, quali cover art e back art, le complementari opere di Sydney Cain.

https://moormother.net/
https://www.facebook.com/MoorMother/
https://www.instagram.com/moormother/

The Great Bailout by Moor Mother

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