“– Perché hai lasciato il cavallo
alla sua solitudine, padre?
Perché dia vita alla casa, figliolo.
Le case muoiono se parte chi le abita.”
(di Mahmud Darwish tratto da “Eternità del fico d’India” in “Perché hai lasciato il cavallo alla sua solitudine” – Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova – 2001)
- Premessa
Aveva appena fatto ingresso il nuovo millennio, il 2000, e sugli scaffali, alla voce “Home Video”, vidi far la comparsa di eleganti DVD con “livrea” rosso-nera; era Rarovideo, “la divisione editoriale di Minerva Pictures, fondata da Gianluca e Stefano Curti nel dicembre 1999, “dedicata alla distribuzione di immagini in movimento di elevato e riconosciuto valore artistico, secondo un approccio interdisciplinare che coniuga qualità del prodotto e cura della veste editoriale” (come si legge sul sito https://www.rarovideo.com/2-2/ consultato il 17 giugno 2025).
Per me che all’epoca cercavo di seguire il “cinema d’autore” ricorrendo spesso a VHS di seconda mano, fu una folgorazione poiché il catalogo Rarovideo, negli anni, mi diede accesso a cineasti (e ai loro relativi film) di pregio assoluto. Potei così recuperare sia film a me noti di registi già conosciuti che scoprirne di nuovi e colmare le tante (e troppe) carenze della mia “cinefilia” a cui, sino ad allora, avevo posto rimedio (al prezzo di notti insonni) seguendo Enrico Ghezzi e il suo “Fuori orario. Cose (mai) viste”. Per fare un parallelismo con la musica, con Rarovideo era come “aprirsi” al catalogo di un’etichetta discografica di “genere” di cui potevi fidarti anche a scatola chiusa; era come acquistare negli anni novanta un disco di etichette indipendenti quali la Matador, la Drag City, la Kranky, la Domino…
Oltre ai film/documentari sulla musica (penso a “Kill Your Idols” di Scott Crary o a “Vinyl – The Velvet Underground & Nico” di Andy Warhol), tra i “titoli” che mi sono rimasti più impressi (su tutti) “Totò che visse due volte” di Ciprì e Maresco, “Andrò Come Un Cavallo Pazzo” di Fernando Arrabal (che resta tra i miei film preferiti), “El Topo” di Alejandro Jodorowsky, “Women in Revolt” di Paul Morrissey, “Good Men, Good Women” di Hou Hsiao-Hsien, “Unagi” di Imamura Shohei, “Jubilee” di Derek Jarman, “Seom” di Kim Ki-duk, “Europa” di Lars von Trier, “L’amore è più freddo della morte” di Rainer Werner Fassbinder, “Un chien andalou” di Luis Buñuel … e la trilogia dell’esilio di Amos Gitai composta da “Esther”, “Berlin-Yerushalaim” e “Golem – Lo spirito dell’esilio”.
- “Golem”
Ed al Teatro Grande del Parco Archeologico di Pompei, in apertura all’ottava edizione della rassegna POMPEII THEATRUM MUNDI, è andato in scena “Golem” di Amos Gitai e Marie-José Sanselme, per la regia dello stesso Amos Gitai.
Quanto restituito al pubblico è stata rappresentazione che, seppur distante dal celebre film “Golem – Lo spirito dell’esilio” (Gitai sul mito del Golem ha anche girato “Nascita di un Golem” e “Il giardino pietrificato”; lo spettacolo teatrale in questione è storia ispirata a un racconto per bambini di Isaac Bashevis Singer, a testi di Joseph Roth, Léon Poliakov e Lamed Shapiro, e alle biografie di attori), ha con pienezza colto l’essenza del Golem, figura cabalistica della tradizione ebraica, rendendola “ecumenico” testimone della condizione umana non solo dell’esilio e degli esiliati,“apolidi” e orfani di una patria e di una terra, ma anche (e soprattutto) delle minoranze oppresse.
Le tribolazioni che il popolo ebraico ha patito e lo yiddish, quale “simbolica” lingua di tutta l’umanità, hanno incarnato la comune esistenza umana al contempo passata e presente perché senza tempo e senza distinzioni di razza, religione e nazionalità; come in una babele di lingue, con lo yiddish, i protagonisti hanno parlato tedesco, inglese, arabo, spagnolo, francese, ebraico e russo.
«Isaac Bashevis Singer – scrive nelle note il regista – dedica questa storia ai perseguitati, agli oppressi in tutto il mondo, giovani e vecchi, ebrei e gentili, nella folle speranza che il tempo delle accuse ingiuste e dei decreti iniqui giunga un giorno alla fine. Sceglie come lingua lo yiddish perché è una lingua in esilio, senza paese, senza confini, una lingua non sostenuta da alcun governo; una lingua che non possiede quasi parole relative ad armi, munizioni, esercizio o pratica militare; una lingua che era disprezzata, sia dai non ebrei che dalla maggioranza degli ebrei emancipati. Per natura, lo yiddish non domina, non dà la vittoria per scontata. Non esige, non comanda, scivola, si insinua clandestinamente tra i poteri di distruzione. È una lingua di un’umanità piena di timore e speranza. In senso figurato, lo yiddish è la lingua saggia e umile di tutti, la lingua di tutta l’umanità nella paura e nella speranza. Era la lingua dei sognatori e dei cabalisti. Il ghetto non era solo un rifugio per una minoranza perseguitata, era anche il luogo in cui si faceva la grande esperienza dell’autodisciplina e dell’umanesimo, nonostante tutta la brutalità che lo circondava. C’è ancora una ragione per non dimenticare lo yiddish, ed è questa: certo, lo yiddish è una lingua morente, ma è l’unica lingua che parlo bene. Lo yiddish è la lingua di mia madre, e una madre non muore mai veramente» (dal comunicato stampa).
Belle le musiche e il canto che, eseguiti dal vivo, hanno concesso momenti da puro “concerto”.
In chiusura di spettacolo, tra gli altri, un gradito e significativo omaggio a Mahmud Darwish nel richiamo all’arte come resistenza.
Non a caso, in apertura, si è riportato un passo del grade poeta e scrittore palestinese Mahmud Darwish che racconta della “casa”, del suo valore e del suo significato, e con il richiamo alla “casa” si chiude il cerchio della nostra trattazione poiché Gitai, nel 1980 con “Bayit” (casa) – film/documentario che fu censurato dalla televisione israeliana -, diede il via a una serie di documentari (oggi una trilogia composta da “A House in Jerusalem” e “News from Home/News from House”) che raccontavano la storia di una abitazione nella città di Gerusalemme; ebbene la trilogia sulla “casa” è divenuta poi le “fondamenta” per lo spettacolo teatrale “House” diretto dallo stesso Gitai.
Una Gerusalemme che Darwish racconta splendidamente in un altro suo passaggio a me caro che recita: ‘Una giovane soldatessa mi ha bloccato chiedendomi della mia bomba e della mia preghiera. Mi sono scusato dicendo: “Non combatto e non prego”. “Perché sei venuto a Gerusalemme allora?” “Per passare tra la bomba e la preghiera, a destra macerie di guerra, a sinistra macerie di Dio, ma io non combatto e non prego.” “Cosa sei?” “Un biglietto della lotteria tra la bomba e la preghiera.” “Cosa ci faresti? Cosa faresti se vincessi?” “Comprerei un colore per gli occhi della mia ragazza”’ (da “Una Trilogia Palestinese” di Mahmoud Darwish – Edizioni Feltrinelli).
https://www.teatrodinapoli.it/evento/golem/


