Nella sua “La Repubblica” Platone narra il “mito della caverna”, allegoria che ben si presta alla nostra trattazione, atteso che la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti.
Correva l’anno 1999 quando Pedro Almodóvar licenziò “Todo sobre mi madre” (“Tutto su mia madre”); all’epoca ero affascinato dai film d’autore spagnoli e in particolare dalla scrittura e regia (anche teatrale) di Fernando Arrabal (il suo “Iré como un caballo loco” resta tra i film a cui sono più affezionato).
In “Tutto su mia madre” Almodóvar fa un esplicito riferimento all’opera teatrale “Un tram che si chiama Desiderio” (“A Streetcar named Desire”), dramma scritto da Tennessee Williams; Williams all’epoca mi era noto (a causa della mia ignoranza) solo per le trasposizioni cinematografiche di “Un tram che si chiama Desiderio” e (soprattutto) di “La gatta sul tetto che scotta” (“Cat on a Hot Tin Roof”), anch’esso tratto appunto dal testo del drammaturgo statunitense. Conoscendo di “La gatta sul tetto che scotta” il film del 1958, diretto da Richard Brooks e con protagonisti Elizabeth Taylor e Paul Newman, e di “Un tram che si chiama Desiderio” il film del 1951 diretto da Elia Kazan, con protagonisti Vivien Leigh e Marlon Brando, mi fece meraviglia che Almodóvar avesse fatto richiamo a quest’ultimo titolo nel suo “Todo sobre mi madre”.
Fu così che “approfondendo”, scoprii la grandezza di Williams come autore che andava ben oltre la “pellicola” e gli edulcorati tagli e modifiche fatti ai suoi testi per le proiezioni sul “grande schermo” destinate a un pubblico benpensante e “borghese”, da “indottrinare” secondo una precostituita morale; non a caso all’epoca, negli USA, era in vigore la “censura” cinematografica che seguiva i dettami del “Hays Code”.
Diversamente da quanto immortalato sulla pellicola, Williams, nelle citate opere, era riuscito con mirabile eleganza a contemperare tematiche delicate quali la condizione della donna nella società dell’epoca, l’omosessualità e i conflittuali rapporti familiari.
Ora, l’essenza del testo di Williams è stata ben resa a teatro con lo spettacolo “La gatta sul tetto che scotta”, su traduzione di Monica Capuani, per la regia di Leonardo Lidi e con interpreti Valentina Picello (Margaret), Fausto Cabra (Brick), Orietta Notari (Mamma), Nicola Pannelli (Papà), Giuliana Vigogna (Mae), Giordano Agrusta (Gooper), Riccardo Micheletti (Skipper), Greta Petronillo (Bambina), Nicolò Tomassini (Reverendo).
Al di là del valore della rappresentazione, ottimamente restituita, con belle scenografie, una curata traduzione e con un’eccellente Valentina Picello, quanto andato in scena è spunto di riflessione per una considerazione che va oltre il valore artistico dell’opera in sé.
È, infatti, segnante constatare come nell’immaginario collettivo (lo era anche il mio in gioventù) resti impressa una immagine falsata del reale solo perché la stessa sia stata (volutamente) proposta in sostituzione di quella appunto reale e di come l’essere umano (per tornare al mito della caverna di Platone) faccia enorme fatica nel prendere coscienza della verità, per una parresia che il sistema dominante (troppo) spesso nega in favore di una artata e costruita “verità” di comodo; ma forse all’essere umano tutto ciò conviene, e quindi possiamo dire e al contempo chiederci assieme Brick (come nel celebre discorso con Papi) “Chi è in grado di affrontare la verità?” (“PAPI Ah… Adesso, comunque, abbiamo scoperto quale è la menzogna che ti fa schifo e perché bevi. Scarichi sugli altri la tua responsabilità. Tu, tu hai scavato la fossa al tuo amico e ce l’hai gettato dentro per non affrontare con lui la verità. BRICK La sua verità. Non la mia. PAPI La sua verità, d’accordo, ma non hai voluto affrontarla con lui. BRICK Chi è in grado di affrontare la verità? Tu lo saresti?” – da “La gatta sul tetto che scotta”, edizioni Einaudi a cura di Paolo Bertinetti).
Foto: Luigi De Palma



