– Premessa
Il 22 luglio di quest’anno è morto John Mayall; a distanza di un mese lo ricordiamo con questo articolo che si concentrerà sulla prima e “seminale” parte della longeva carriera del musicista (per personale scelta fino, quindi, alla pubblicazione di “Jazz Blues Fusion” del 1972 e senza tenere conto di tutti i numerosi live pubblicati poi nel tempo e delle raccolte varie); l’articolo sarà inoltre spunto anche per una breve (ma necessaria) disamina sulla nascita del blues e del rock blues in Inghilterra.
Il più delle volte, quando si parla del “rock” inglese e delle sue origini, si fa riferimento ai The Beatles e ai The Rolling Stones; ed effettivamente sono loro che nell’immaginario collettivo (ed anche in parte nella realtà) hanno caratterizzato e influenzato l’evoluzione della musica in Inghilterra a partire dagli anni sessanta (diverso discorso per il folk di cui si è trattato su queste pagine nell’articolo “I Lankum, il folk britannico e i corsi e i ricorsi storici nella musica” alla cui lettura si invita rinviando qui).
Gran parte della musica rock che si svilupperà, però, a partire dagli anni sessanta nella terra di Albione deve altrettanto tantissimo (e per certi versi anche di più) a due pionieri e precursori che portano il nome di Alexis Korner e John Mayall.
– Alexis Korner’s Blues Incorporated
Sono Alexis Korner e Cyril Davis (morto purtroppo prematuramente nel 1964) che nel 1955 apriranno il London Blues And Barrelhouse Club alla Rounddhouse di Soho (come si legge a pagina 287 dell’Enciclopedia del Rock anni ’60 dell’Arcana Editrice a cura di Riccardo Bertoncelli, edizione del 1989, mentre a pagina 7 di Atlanti Musicali Giunti – Rock Blues di Mauro Zambellini – ristampa del 2007 è scritto: “Memorabili furono il ‘Good Earth Club’ prima, il ‘Blues And Barrelhouse Club’ dopo, da loro fondati a metà degli anni ’50 alla Rounddhouse di Londra”) e che poi, all’alba degli anni sessanta, forti anche dell’esperienza fatta con l’iconico Chris Barber, formeranno la Blues Incorporated, gruppo con il quale opereranno una miscellanea di blues, R&B, jazz e con cui, nel 1962, daranno alle stampe lo storico live “R&B from the Marquee”, pietra d’angolo del blues d’oltremanica, in cui compaiono classici quali “Hoochie Coochie”, “I Got My Brand on You” … e brani ora di Korner “Gotta Move”, “Finkle’s Cafe”, “Down Town”, ora di Davis “Spooky But Nice”, “Keep Your Hands Off”; senza Davis a nome Blues Incorporated, di rilievo, anche “Red Hot From Alex” del 1964, disco che però assume tinte più jazz (va detto che prima della Blues Incorporated “Tra il 1957 e il 1961 Davis e Korner suonano insieme nei Breakdown Group e Roundhouse Jug Four” – si legge a pagina 127 della detta Enciclopedia del Rock anni ’60).
La Blues Incorporated sarà anche la culla nella quale si formerà parte della futura generazione di musicisti che diverranno tra gli anni sessanta e settanta colonne del “rock” in Inghilterra: “Nella prima formazione della Blues Inc. c’è il batterista Charlie Watts, che lascia il posto a Ginger Baker … Nel gruppo ruotano anche il bassista Jack Bruce e il sassofonista tenore Dick Heckstall-Smith. La Blues Inc. diventa la prima banda bianca di blues elettrificato del mondo … Korner ne è il leader e il chitarrista, le parti vocali vanno successivamente a Mick Jagger, Eric Burdon, Paul Jones e Long John Baldry, mentre la flessibile line up vede alternarsi come strumentisti Graham Bond, Keith Richards, Lee Jackson, John Surman, John McLaughlin, Brian Jones” (si legge ancora su Atlanti Musicali Giunti – Rock Blues di Mauro Zambellini – ristampa del 2007 alle pagine 43 e 44); Korner lavorerà anche con un giovane Robert Plant per “Steal Away” e per “Operator”, brano quest’ultimo, che compare anche su “Bootleg Him!”, antologia che vede la presenza, oltre dei già citati nomi, anche (tra i tantissimi) di Dave Holland, Paul Rodgers, Lol Coxhill, Steve Miller (tra l’altro al pianoforte in “Operator”) ….
Da quanto si apprende, è poi proprio Korner che suggerirà a John Mayall di trasferirsi a Londra, dove darà vita ai celebri The Bluesbreakers (“Su consiglio di Alexis Korner si trasferisce a Londra, dove nel 1963 forma i Bluesbreakers” – si legge a pagina 49 del citato Atlanti Musicali Giunti – Rock Blues di Mauro Zambellini; “È Alexis Korner a convincerlo a trasferirsi a Londra dopo averlo notato a Manchester, dove capeggia un complesso di R&B molto grezzo, i Blues Syndacate … nel gennaio del 1963 inizia a organizzare una propria banda, che chiama Bluesbreakers” – a pagina 323 della citata Enciclopedia del Rock anni ’60 dell’Arcana Editrice).
Il “progetto” di Mayall andrà a completare quanto operato dalla Blues Incorporated: “I suoi Bluesbreakers hanno funzionato da accademia del genere, sfornando musicisti di prima grandezza come i chitarristi Clapton, Green e Mick Taylor, i bassisti Jack Bruce e John McVie e i batteristi Aynsley Dunbar e Mick Fleetwood” – si legge sempre a pagina 49 del citato Atlanti Musicali Giunti – Rock Blues di Mauro Zambellini.
– John Mayall & The Bluesbreakers
John Mayall con i The Bluesbreakers esordisce su disco nel 1965 con “John Mayall Plays John Mayall”, contenente registrazioni live al Klooks Kleek club di Londra del 7 dicembre 1964, lavoro che si distingue poiché costituito principalmente da brani scritti dallo stesso Mayall e non da “interpretazioni” di “vecchi” blues: al basso c’è John Graham McVie.
È però l’anno successivo che consacrerà i The Bluesbreakers, quando in formazione entrerà Eric Clapton reduce dai The Yardbirds (nei The Yardbirds Clapton verrà sostituito da Jeff Beck, con cui incideranno il bel “Roger the Engineer” nel 1966, gruppo che vedrà successivamente anche la presenza di Jimi Page, prima come bassista e poi come chitarrista per una formazione a due chitarre Beck/Page. Mentre Beck, poi, andrà a fondare il Jeff Beck Group con, tra l’altro, Rod Stewart alla voce e Ron Wood al basso – di rilievo a loro nome sia “Truth” del 1968 che “Beck-Ola” del 1969 -, Page dalle ceneri dei The Yardbirds – o meglio dei The New Yardbirds – darà vita ai Led Zeppelin: il resto appartiene alla storia).
I The Bluesbreakers, con Clapton, pubblicheranno nel 1966 “Blues Breakers with Eric Clapton”, un lavoro efficace, solido, diretto e prodromico, destinato ad essere probabilmente (con “Jazz Blues Fusion”) il più famoso (ma non il migliore) disco di Mayall, per un Eric Clapton che qui trova ampi margini di spazio, certifica le sue indubbie qualità di chitarrista iniziando a delineare un “suono”, firmando con Mayall l’intensa “Double Crossing Time”, mettendo anche la voce in “Ramblin’ On My Mind” (brano che Clapton non abbandonerà mai in carriera) e caratterizzando brani come (per tutti) la rivisitazione di “Steppin’ Out” di James Bracken che poi riproporrà, di lì a poco, anche con i Cream (significativa la lunga versione presente su “Cream Live Volume II”; brano da ascoltare con la celebre e successiva “Lazy” dei Deep Purple).
Il 1967 è la volta dell’ottimo “A Hard Road”, in cui alla chitarra, al posto di Clapton, ci sarà Peter Green e alla batteria subentrerà Aynsley Dunbar; al basso ancora John McVie. Il cambio alle corde si farà sentire in modo evidente: il suono perde in “durezza” e assume dimensioni più visionarie come testimonia la splendida “The Super-Natural” proprio di Green (si iniziano a percepire echi di ciò che saranno i classici di Green “Black Magic Woman”, “Albatross”, “Rattlesnake Shake” …).
Sempre del 1967 è l’interlocutorio “Crusade” che, saldo ancora nel blues/rock, vede l’ennesimo cambio di formazione, con il giovane Mick Taylor alla chitarra e Keef Hartley alla batteria; da segnalare “in scaletta” la presenza di “I Can’t Quit You Baby” di Willie Dixon, brano che comparirà, nel 1969, in un’ottima versione sul disco di esordio dei Led Zeppelin nel quale verrà incisa, sempre di Dixon, anche “You Shook Me”, questa pubblicata invece l’anno precedente su “Truth” del citato Jeff Beck Group. Ciò a testimonianza di come i “classici” del blues fossero materiale vivo da cui attingevano i musicisti inglesi dell’epoca.
Ancora nel 1967, Mayall (a proprio nome) trova il tempo di pubblicare anche “The Blues Alone”, disco personale (le composizioni sono sue e Mayall suona tutti gli strumenti ad eccezione delle “pelli” a cura di Keef Hartley), più intimo (per tutte le pianistiche “Down the Line”, “Marsha’s Mood” o “Broken Wings” caratterizzata dall’organo) che risulta di piacevole ascolto.
Dai concerti tenuti dai The Bluesbreakers tra l’ottobre e il dicembre del 1967, verranno estratti i due live “The Diary of a Band” volume One e Two (pubblicati nel 1968); qui i brani si allungano, sino a raggiungere – se non a superare – spesso anche i 10 minuti, e si caricano di tensione propria della dimensione live da “club underground”. Le non cristalline registrazioni conferiscono al tutto un gradito particolare fascino.
Il 1968 è l’anno della svolta con il “parziale” abbandono del blues più “ortodosso” e l’apertura verso una più “cromatica” e “lisergica” concezione che si concretizza nel poliedrico “Bare Wires” in cui fanno la comparsa anche il violino e la cornetta di Henry Lowther, oltre alla “consueta” sezione dei sassofoni affidati a Chris Mercer e Dick Heckstall-Smith. Il blues emerge comunque, ora in modo più “tradizionale” come in “I Started Walking” o “Killing Time”, ora “deviato” come in “Open Up a New Door” (con tanto di declinazioni jazz), ora rituale e pagano come in “Fire”, ora da caldo tramonto come “I’m a Stranger”, ora “acustico” come in “Sandy” …
L’esperimento dura un disco poiché, pubblicato il successivo “Blues from Laurel Canyon” (anche esso del 1968; il titolo “Laurel Canyon” è un evidente riferimento alla California e agli U.S.A.), Mayall non solo congeda i The Bluesbreakers (di cui in formazione è presente ancora Mick Tayor alla chitarra) ma vira nuovamente verso un blues elettrico più puro (“Walking On Sunset”, “Laurel Canyon Home”, “Somebody’s Acting Like a Child”…) e “rock” (“Vacation”, “2401”, la lunga “Fly Tomorrow” …), mentre nella eterea “First Time Alone” si distingue la chitarra “lontana” di Peter Green; nel disco c’è anche uno speciale omaggio, “The Bear”, brano dedicato a Bob Hite, cantante dei Canned Heat, detto appunto The Bear (Mayall aveva preso parte alle registrazioni del loro “Living the Blues” disco sempre del 1968).
Nel 1969 Mayall compie un piccolo miracolo musicale, consacrandosi con l’eccezionale live “The Turning Point” (tra i più bei live dell’epoca, registrato il 12 luglio del 1969 al Bill Graham’s Fillmore East di New York), sospeso tra blues e jazz, elegante, caldo e intenso (l’incalzante e viscerale “The Laws Must Change”, la cadenzata e fumosa “Saw Mill Gulch Road”, la classica “I’m Gonna Fight for You J.B.” – in cui la chitarra acustica di Jon Mark si esalta -, l’eccelsa “So Hard to Share”, “California” – in cui il sassofono di Almond si supera -, la notturna “Thoughts About Roxanne” e la stupefacente ritmica “Room to Move”… sono perfette sotto ogni loro aspetto).
Il disco spicca per l’assenza di batteria, forte di una ritmica portata dal basso di Steve Thompson e dalle chitarre di John Mayall e Jon Mark oltre al lavoro dei fiati Johnny Almond e all’utilizzo dell’armonica da parte di Mayall che, nel loro insieme, non ne fanno avvertire l’assenza (basterebbe sentire solo l’attacco di “The Laws Must Change” per capirne l’essenza).
L’esperienza di “The Turning Point” darà vita a “Empty Rooms” del 1970 (che vede in studio la medesima formazione del suo predecessore più la partecipazione di Larry Taylor al basso), come dimostrano brani caldi e jazzati quali “Something New”, “Waiting for the Right Time”, “Counting the Days” … e le ritmiche di “Don’t Waste My Time”, “People Cling Together” ..; se il blues più “tradizionale” è affidato a “Many Miles Apart”, “Don’t Pick a Flower”, caratterizzata dal flauto, è ballata intrisa di pastorale gusto più vicina a un certo progressive che al blues vero e proprio, formula che si compie in “Counting the Days” nell’intermezzo strumentale a tinte folk/psichedeliche e nel blues lisergico e spoken di “Lying in My Bed”; se, però, in “Bare Wires” le “divagazioni” avevano una loro ragione ed organicità, quelle di “Empty Rooms” frammentano eccessivamente.
La copertina con la bandiera britannica e quella statunitense e il titolo “USA Union” sono la vetrina per il disco registrato nel “nuovo mondo” con musicisti d’oltreoceano; la musica continua nei solchi dei suoi due predecessori e anche se vengono meno i fiati, sostituiti dal violino di Don Harris, l’ascolto è piacevole (come dimostra già il brano d’apertura “Nature’s Disappearing”, la riuscita “Possessive Emotions”, la sentita “Crying” con un Harris in primissimo piano); con Harris, oltre a Mayall, Harvey Mandel alla chitarra e Larry Taylor al basso. “USA Union”, con “The Turning Point” e “Empty Rooms” chiude un’ideale trittico.
Il successivo disco, “Back To The Roots” del 1971 è crasi di quanto sino a quel momento suonato. Torna la batteria con Keef Hartley e Paul Lagos, le chitarre si elettrificano nelle mani dei vecchi amici Eric Clapton e Mick Taylor (con loro alla sei corde anche Harvey Mandel e Jerry McGee), al violino di Harris si affiancano i fiati del fidato Johnny Almond, così come al basso con Larry Taylor è nuovamente Steven Thompson. “Back To The Roots” è vinile doppio, con 18 brani, in cui prepotente è il blues (“Accidental Suicide”, “Television Eye”, “Marriage Madness” …) per un “ritorno alle radici” che dà l’idea di una “reunion” di commiato.
L’esperienza e la “caratura” dei musicisti ne garantisce, però, qualità anche se inizia a venir meno la “freschezza”; nel disco ci sta spazio anche per divagazioni più funk/soul come “Groupie Girl”, per incursioni verso sonorità contaminate con le coeve correnti “fiabesche” (“Dream With Me”), per venature rock/blues più sostenute come “Force of Nature”, “Unanswered Questions”, per strumentali affidati al pianoforte di Mayall come “Boogie Albert”, o per più dolci momenti come “Goodbye, December” (brano che avrei visto bene suonato o dai Blind Faith e cantato da Steve Winwood – eccezionale il loro omonimo disco del 1969 – o dai Derek And The Dominos – da menzionare lo storico “Layla and Other Assorted Love Songs” del 1970, lavoro reso unico dalla presenza di Duane Allman).
Il 1971 è anno Giano bifronte: da una parte la pubblicazione di “Memories” (registrato tra il 7 e il 9 luglio del 1971), in cui Mayall si fa affiancare dai soli Jerry McGee (alla chitarra, dobro steel guitar e sitar) e Larry Taylor (al basso), per un disco (bella è “The Fighting Line”) che senza aggiungere nulla di nuovo (si ascolti “Play The Harp”), se non con il “particolare” brano eponimo, si presenta come versione ancora più essenziale del periodo “The Turning Point”, mentre dall’altra sono le registrazioni dal vivo che andranno a comporre “Jazz Blues Fusion” che verrà pubblicato l’anno seguente, nel 1972 (“The first side is from a gig in Boston at the Boston Music Hall on 18th Nov 71, and the second side was selected from two concerts at Hunter College, New York, on 3rd and 4th December 71” – si legge nelle note di copertina).
“Jazz Blues Fusion” è, al pari di “Blues Breakers with Eric Clapton”, tra i più celebri lavori di Mayall (ma ribadisco, per me, non tra i migliori: “The Turning Point” è superiore ad entrambi), disco che idealmente chiude la più importante parte della sua carriera con l’ennesima “rivoluzione” artistica.
I musicisti coinvolti, ad eccezioni di Mayall e Larry Taylor, cambiano ancora e sono: Freddy Robinson alla chitarra, Ron Selico alla batteria, Blue Mitchell alla tromba e Clifford Solomon ai sassofoni. Il risultato è un live in cui tutto è bilanciato ed equilibrato (al contempo pregio e difetto – personalmente preferisco l’irrequieta spontaneità dei live di “The Diary of a Band”), per un blues arricchito dai fiati, ora tirato come in “Country Road”, ora da “ballo” come in “Good Time Boogie”, ora “travolgente” come in “Change Your Ways”, ora incline al jazz come in “Dry Throat”, ora miscellanea come in “Exercise in C Major for Harmonica, Bass & Shufflers”, ora più “ordinario” come in “Got to Be This Way”.
Come anticipato, con “Jazz Blues Fusion” si chiude il nostro omaggio a John Mayall, sebbene la sua produzione sia continuata fino ai giorni nostri e la sua discografia si sia, nel tempo, arricchita di nuove pubblicazioni, di live (anche riscoperti dagli archivi) e raccolte.
A John Mayall e ad Alexis Korner va il merito (e il ringraziamento) di aver contribuito alla formazione di musicisti che sarebbero poi diventati famosi in Inghilterra e nel mondo in prima persona o avrebbero preso parte a gruppi storici come i The Rolling Stones, i Led Zeppelin, i Cream, i Fleetwood Mac, i Colosseum, i Free …
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