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Home Focus On

“=1”: i Deep Purple fermi a quel (poco) di buono fatto negli anni settanta

di Marco Sica
1 Agosto 2024
in Focus On, Speciali
Tempo di lettura: 9 minuti
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Recitava un disco dei Jethro Tull “Too Old to Rock ‘n’ Roll: Too Young to Die!”; d’altra parte, che si voglia continuare a suonare e a licenziare dischi è cosa legittima, anche per chi è sulla scena da più di mezzo secolo e abbia un nome altisonante.

Non a caso nell’ultimo anno sono state molte le pubblicazioni di “vecchi” artisti famosi, alcune riuscite (come “One Deep River” di Mark Knopfler), altre meno (come “I/O” di Peter Gabriel), altre che hanno scomodato persino i defunti (come il singolo “Now And Then” dei the Beatles) … ed ancora “Hackney Diamonds” dei The Rolling Stones, il personale e discusso “The Dark Side Of The Moon” di Roger Waters … e di prossima uscita sarà “Luck And Strange” di David Gilmour.  

All’appello si sono aggiunti ora i Deep Purple che, con il “noto” Bob Ezrin alla produzione, hanno dato alle stampe “=1” (earMUSIC/Edel AG).

Devo preliminarmente precisare che, in una personale classifica di “genere”, per il periodo che va a cavallo tra il finire degli anni sessanta e la prima metà degli anni settanta, i Deep Purple non hanno mai goduto del mio più alto gradimento, avendogli da sempre preferito, non solo i Led Zeppelin (superiori come compositori e come “musicisti” e più costanti nella qualità delle loro produzioni), ma anche (e soprattutto) i Blue Öyster Cult di “Tyranny and Mutation” (del 1973) e “Secret Treaties” (del 1974); va poi detto che i Deep Purple non furono nemmeno dei veri precursori come i Blue Cheer di “Vincebus Eruptum” (del 1968) o come, per altri versi, gli MC5 di “Kick Out The Jams” (del 1969 e contenente registrazioni live del 30 e 31 ottobre del 1968).

Né, dopo aver lasciato la propria indelebile impronta agli inizi degli anni settanta, i Deep Purple riuscirono, nel prosieguo del decennio, a rimodellare ed evolvere il “genere” che avevano contribuito a plasmare, come invece fecero i King Crimson di “Larks’ Tongues In Aspic” del 1973 e di “Red” del 1974 (ma qui siamo innanzi ai massimi livelli raggiunti dalla musica “rock”), o a colpire l’immaginario divenendo “costume” come fecero i Black Sabbath, o a pubblicare brani AOR “perfetti” come “(Don’t Fear) The Reaper” (del 1976) dei citati Blue Öyster Cult.

Dopo le incertezze dei primi tre dischi (“Shades of Deep Purple” e “The Book of Taliesyn” – entrambi del 1968 – e Deep Purple del 1969, tutti con Rod Evans alla voce e Nick Simper al basso), miscellanea di rock, psichedelia e proto-progressive (si pensi alla suite “April”, alla bella “Lalena”, ad “Anthem” … lavori in cui compaiono, tra le altre, perfino le cover di “Help!”, di “Hush”, di “River Deep, Mountain High”, oltre alla western “Hey Joe”), e una discutibile esibizione live del 1969 con la Royal Philharmonic Orchestra condotta da Malcolm Arnold che vedrà la luce come “Concerto for Group and Orchestra” (la commistione tra rock e musica classica era spesso un malcostume del tempo come già aveva testimoniato “Days of Future Passed” del 1967 a firma “The Moody Blues”; unico merito di “Concerto for Group and Orchestra” è che presenta la miglior compagine di sempre con Ritchie Blackmore, Jon Lord, Ian Paice e l’ingresso di Ian Gillan e Roger Glover che, su disco, sarà eguagliata – se non superata – solo da quella che vedrà Steve Morse alla chitarra), non si può comunque negare che e dal 1970 al 1974 i Deep Purple, come già detto, abbiano contribuito a “creare” un “genere”, influenzando generazioni di musicisti futuri.

Del 1970 è infatti “Deep Purple In Rock” e del 1974 sono “Burn” (con il cambio alla voce Ian Gillan/David Coverdale e al basso Roger Glover/ Glenn Hughes) e “Stombringer” ; nel mezzo la pubblicazione di “Machine Head” del 1972 e del celeberrimo coevo “Made In Japan” (quest’ultimo indubbiamente tra i più riusciti e acclamati live rock in senso esteso dell’epoca sebbene – a parere di chi scrive – non superiore, ma anzi in alcuni casi inferiore, ad altre registrazioni di concerti di quel periodo quali ad esempio “Live/Dead” dei Grateful Dead, “At Fillmore East” dei The Allman Brothers Band, “How The West Was Won” dei Led Zeppelin – ancor più del ben noto “The Song Remains The Same” -, ed ancora “Absolutely Live” dei The Doors – ancor più nella versione integrata “In Concert” – il già citato “Kick Out The Jams” degli MC5, “Live At Leeds” dei The Who, “1969: The Velvet Underground Live” dei The Velvet Underground, i “Live Cream” dei Cream – se si considerano entrambi i volumi I & II, “Jimi Plays Monterey” dei The Jimi Hendrix Experience, “The Turning Point” di John Mayall – ancor più del famoso “Jazz Blues Fusion”-, i tre volumi di “Live in Boston” dei Fleetwood Mac, “4 Way Street” a firma Crosby, Stills, Nash and Young … o “Roxy & Elsewhere” di Frank Zappa con le The Mothers of Invention – anche se in questo caso parlare di “rock” è riduttivo oltre a essere presenti overdubbing nell’incisione).

Ad ogni modo, giocando con possibili citazioni e/o coincidenze (“Balck Nigth” vs “Summertime” di Ricky Nelson vs “We Ain’t Got Nothin’ Yet” dei The Blues Magoos, “Fireball” vs “Rock Star” dei Warpig … ne sono un esempio) o incorrendo in “paradossi” musicali (straordinaria è la somiglianza dell’intro di “Child In Time” con quello di “Bombay Calling” degli It’s A Beautiful Day; verrà pubblicato dai Deep Purple anche un live del 1995 proprio con il titolo “Bombay Calling”) e in assonanze (come “Lazy” con la rivisitazione di Eric Clapton di “Steppin’ Out”, sia nella versione con i The Bluesbreakers di John Mayall che in quella con i Cream – da sentirla dal vivo sul su citato “Live Cream Volume II”), i Deep Purple hanno avuto il sicuramente pregio di codificare, nella prima metà degli anni settanta, un linguaggio musicale diretto, immediato, fruibile e per questo vincente, forte di soluzioni esatte nella loro costruzione.

Pregio e limite poiché, fatta salva la pace dei citati “Deep Purple In Rock” e “Machine Head” – che non hanno bisogno di presentazioni -, e volendo includere anche “Burn” (con le ottime “Burn”, “You Fool No One”, “Mistreated” …), ma collocandolo su un gradino inferiore rispetto ai citati inarrivabili due (in “Stombringer”, nonostante “Strombringer” e la bella ballata “Soldier of Fortune” emergono già segni di stanchezza e di “deriva”), i loro dischi in studio, di effettivo rilievo, si limitano ai detti due/tre (per onestà intellettuale e completezza “temporale” va menzionato anche il disco “ponte” “Fireball” del 1971, traghettatore più compassato e morbido e in ogni caso ben fatto – da ricordare oltre al brano eponimo, la country “Anyone’s Daughter” e “The Mule” anche se, per rimanere in tema, la “Mule” dei Gov’t Mule si fa preferire, così come di rilievo, per tornare al discorso registrazioni dal vivo, è il loro bel live “Live… With a Little Help from Our Friends” – e “Who Do We Think We Are” del 1973 reso famoso per “Woman From Tokyo”).

Dopo (il primo) abbandono di Blackmore, “Come Taste the Band” del 1975 con Tommy Bolin (che morirà prematuramente l’anno dopo) è lavoro che, con una piacevole ritrovata vigoria, chiude nel migliore dei modi un’era per i Deep Purple non replicabile e intramontabile; il tempo, infatti, non è stato con loro galantuomo e alla fine, da guide e ispiratori, si sono trasformati (con scarso successo) a loro volta in “imitatori” prima di se stessi e poi dei loro “discepoli” con l’intento (forse) di voler arrivare anche al nuovo pubblico che, a partire dalla seconda metà degli anni settanta e soprattutto negli anni ottanta, si stava infiammando sempre più con il “metal” e con tutte le sue derivate correnti che via via nascevano.

Il risultato è stato spesso mediocre in termini qualitativi e pedissequo (“Perfect Strangers” del 1984,  “The House of Blue Light” del 1987 e “Slaves & Masters” del 1990 … ne sono un esempio – si ascolti la ballata “Love Conquers All” o “Knockin’ at Your Back Door” per averne un’idea -; malgrado ciò il pubblico li ha sempre continuati a seguire …), tra cambi di formazioni che vedranno alla voce Joe Lynn Turner (in “Slaves & Masters”) e alla chitarra anche Joe Satriani e Steve Morse. Proprio con Morse ci sarà una “timida” ripresa e una più coerente attualizzazione e saggia commerciabilità a partire da “Purpendicular” del 1996 (“Vavoom: Ted the Mechanic”, “Loosen My Strings”, “Cascades: I’m Not Your Lover”, “Sometimes I Feel Like Screaming” e “Watching the Sky” da “Abandon” del 1998); il resto è sterile commento (invertendo gli addendi il risultato non cambia) “abusato” da “enciclopediche” pubblicazioni live, da discutibili cover come “Roadhouse Blues” (da  “Infinite” del 2017) o da interi album di cover come “Turning to Crime” del 2021 (contenente anche “Oh Well” di Peter Green ai tempi dei Fleetwood Mac, “Dixie Chicken” dei Little Feat – ancora in tema live da ricordare il loro ottimo “Waiting for Columbus” -, “7 And 7 Is” di Arthur Lee dallo splendido “Da Capo” dei Love, “White Room” dei Cream …).

Tempo fa, su queste pagine, si osservò come invece un altra band, i King Crimson, fosse riuscita a rinnovarsi con grandissima qualità nei decenni: “un gruppo che ha saputo, in mezzo secolo di attività, essere sia fedele a se stesso che attuale, operando un continuo rinnovamento, mantenendo alta la qualità creativa ed esecutiva; caratteristiche rare per artisti così longevi, mi vengono in mente Miles Davis … e Frank Zappa”; ciò a testimoniare come una tale operazione fosse possibile.

Fare, pertanto, un paragone tra ciò che i Deep Purple furono, quanto abbiano rappresentato negli anni settanta, con la loro produzione successiva e odierna è “irriverente” oltre a essere inutile esercizio di stile; paragone utile solo nella misura in cui serva ad affermare che anche “=1” segue la filosofia del voler provare a piacere, avvalendosi dell’esperienza del gruppo e del produttore, oltre che di mezzi e risorse a disposizione.    

Notizia, poi, di spicco è che in “=1” alla chitarra milita Simon McBride che ha sostituito Steve Morse, andando così ad aumentare l’irrequieto elenco di chitarristi che si sono susseguiti nel tempo, partendo da Ritchie Blackmore, passando per Tommy Bolin, transitando nuovamente per Blackmore e ancora poi per la fugace apparizione di Joe Satriani, per Steve Morse e quindi per Simon McBride.  

Per il resto, in formazione Ian Paice (unico superstite dai tempi di “Shades of Deep Purple”), gli storici Roger Glover e Ian Gillan e il titolato Don Airey (che ha sostituito Jon Lord ed è presente, in studio, da “Bananas” del 2003).

Ad anticipare l’uscita di “=1”, nell’ordine, i singoli: “Portable Door”, radiofonico, funzionale e dal collaudato schema riff + assolo di McBride + assolo di Airey; la ancora più AOR “Pictures Of You”, in cui fanno eco richiami, nella chitarra e nella linea vocale, agli anni ottanta e in cui trova spazio anche una coda finale pacata e “misteriosa”; “Lazy Sod” che di fatto si pone su una linea mediana tra i suoi predecessori, non distanziandosi più di tanto da essi per intenzione e fine.  

La formula sostanzialmente si ripete per l’intero disco senza sussulti, senza rabbia e senza visceralità, per una musica che, collocata nel primo quarto di secolo del secondo millennio, sembra un pop/mainstream vestito di hard rock (“Show Me”, “A Bit on the Side”, “Old-Fangled Thing”, “No Money to Burne”, “Bleeding Obvious” …) con tanto di ballate/rock ora melliflue “If I Were You”, ora vagamente black “I’ll Catch You” o replicando vecchi cliché (“Now You’re Talkin” per tutte).

Terminato l’ascolto, si può con serenità d’animo dire che i Deep Purple sono restati fermi a quel (poco) di buono fatto negli anni settanta senza mostrare nel tempo capacità di valido rinnovo, pubblicando (con pochissimi alti e tanti bassi) dischi comunque funzionali al mercato, da ascoltare senza troppe pretese come un compagno di viaggio seduto sul seggiolino del passeggero, lungo statali polverose.  

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